Amerika – note di regia

Kafka, Scaparro e l’Europa delle diversità

di Fausto Malcovati

Bisognerà pur scrivere, un giorno o l’altro, la storia delle riduzione teatrali a cui Maurizio Scaparro ha messo mano: tutte singolari, riuscite, attualissime. È certo il caso di Amerika, a cui ho cominciato a lavorare con Maurizio nella prima edizione e che rinasce oggi alla vigilia della Presidenza Italiana dell’Unione Europea, mentre per anni America ed Europa si sono trovate a riflettere, anche inutilmente, sulle proprie origini, sulla propria storia, sui propri malesseri. Mentre lavoravo con Maurizio mi venivano in mente almeno altri due titoli di suoi spettacoli, che qui vanno comunque ricordati: Don Chisciotte e Memorie di Adriano. 
Don Chisciotte aveva come sottotitolo Frammenti di un discorso teatrale, (che mi serve per proseguire il mio discorso). Si, anche Amerika avrebbe potuto avere lo stesso sottotitolo: anche perché il romanzo stesso di Kafka non è compiuto, è una serie di capitoli, di frammenti. E questo credo sia stato uno dei motivi che ha attirato Maurizio. 
È curioso osservare come l’occhio e l’orecchio di Maurizio lavorano di fronte a un testo: curioso soprattutto per uno come me, che della lettura ha fatto un mestiere, e che ritiene (almeno fino all’incontro con Maurizio) di averlo svolto con soddisfazione. Maurizio mi ha insegnato molte cose che mi hanno inizialmente del tutto spiazzato. 
Il primo livello, quello iniziale, di base, mi è abbastanza familiare: si tratta di decidere quello che si vuole far dire oggi a un dato testo. E questo Maurizio lo ha chiarissimo fin dai primi passi. È lapidario nel mettere a fuoco le linee su cui vuole orientare lo spettacolo. Qui, nella nostra Amerika, ce n’erano tre, nate, credo, contemporaneamente nel vulcanico cervello di Maurizio.

Anzitutto Amerika è un testo visionario: Kafka, come si sa, non è mai stato in America, dunque tutto quello che dell’America vede, racconta, descrive è tutto frutto della sua fantasia, a cominciare dalla spada che la Statua della Libertà brandisce nella prima pagina del romanzo e che, come si sa, non esiste. Prima linea: l’America come un grande sogno kafkiano, come l’allegoria di un mondo che non necessariamente deve avere a che fare con l’America reale. 
Seconda linea, legata in modo indissolubile alla prima a quella visionaria: l’emarginazione, la diversità, la condizione dell’emigrante. Maurizio me l’ha subito posta di fronte come chiave dello spettacolo all’inizio del nostro lavoro. E ancora di più oggi, in un’Europa dove i flussi migratori sono sempre più massicci e spesso drammatici, dove l’intolleranza affiora sempre più dura accanto all’accettazione, ecco uno spettacolo dove un ragazzo Boemo va in America, incontra un fuochista tedesco, fa un pezzo di strada con un disoccupato irlandese e uno francese, ha come compagno di lavoro un ragazzo italiano. Maurizio teneva molto a questa linea, voleva addirittura che ogni personaggio dicesse qualcosa nella sua lingua (anzitutto, il tedesco di Karl, ma anche il francese, l’inglese e l’italiano); voleva che questa sua America fosse una sorta di Torre di Babele, che è poi la direzione verso cui si è mosso. 
La terza linea, la più sorprendente, quella in cui mi trovavo meno a mio agio, è quella musicale: qui Maurizio ha sfoderato tutto il suo istinto teatrale, il suo infallibile fiuto da uomo del palcoscenico. Nella sua prassi registica, credo, c’è un’incessante koinè di linguaggi (spaziale e scenografico, gestuale e vocale, musicale), ciascuno dei quali non può fare a meno dell’altro, ciascuno dei quali condiziona e stimola l’altro. Mentre leggeva le pagine di Amerika, nel suo cervello pullulavano le associazioni musicali, gli si disegnavano continue proposte per una possibile colonna musicale. Di fronte alla mia stupefatta reticenza professorale, con una sicurezza un po’ divertita e perfino un po’ spudorata, mi diceva: qui penso a un pezzo di rag – time, qui ci vuole assolutamente una vecchia canzone boema, qui bisogna trovare una nenia ebraica, qui invece una marcia militare.

In un primo momento ho pensato: ma questa è pura follia, come si può unire il cupo discorso kafkiano, tutto centrato sulla sopraffazione e sulla frustrazione, con il rag – time? Invece, nonostante le mie iniziali perplessità (i salti nel buio, nella vita come nel lavoro, mi hanno fatto sempre una gran paura), mi son reso conto che Maurizio aveva ragione, che l’elemento musicale doveva esserci, che questa terza linea doveva mescolarsi alle altre due, la visionaria e la sociale: diventava anzi un elemento indispensabile al collegamento, alla mediazione. 
Vorrei aggiungere un’altra nota al metodo di lavoro di Maurizio: la suggestione che su di lui esercita la parola. Come già nelle precedenti esperienze di riduzioni teatrali di testi narrativi, Maurizio vuole nei confronti dell’originale massimo rigore e rispetto. Non si riscrive Kafka, non si inventano battute diverse da quelle esistenti: dove c’è materiale dialogico dell’autore, lo si deve conservare e utilizzare al massimo. E tuttavia per la parola dell’autore Maurizio ha una sensibilità tutta speciale: ci sono frasi, battute che afferra, lascia risuonare dentro e su cui poi costruisce una proposta di lettura del tutto originale. Mi è capitato molte volte, nel corso del lavoro insieme, di sentirmi dire: guarda che Karl a tale pagina dice questo, tienine conto, oppure non dimenticare che la cuoca a pagina tale guarda una fotografia, è importante.

Così Maurizio mi ha condotto per mano, nel suo modo apparentemente distratto, casuale, in realtà assolutamente rigoroso e coerente, attraverso suggestioni che mescolano il testo kafkiano con la sua sensibilità e responsabilità registica, verso scelte precise, verso lo spettacolo che si costruiva sul palcoscenico del Piccolo Eliseo e che ora nel 2014 (a cento anni esatti dalla nascita di questo testo incompiuto) riparte da Napoli per l’Italia e l’Europa. 
Parlavo prima di koinè di linguaggi: prima ancora che io mettessi mano ai primi abbozzi di copione, già Maurizio sapeva come voleva che cominciasse lo spettacolo e mi descriveva lo stupore di Karl di fronte alla Statua della Libertà, mi faceva sentire gli odori e gli umori del porto di New York, mi guidava all’interno della nave piena di emigranti in cui si perde Karl, vedeva sbucare da una porta scura il rozzo fuochista dall’accento tedesco. E mi raccomandava il “tema” della fotografia, che è poi quello del ricordo, del passato boemo ed ebraico del protagonista, il “tema” del teatro, presente in Brunelda e in Oklahoma, il “tema” della scrivania americana, allusione, con le sue misteriose manovelle, i suoi infiniti scomparti, a tutti gli attuali marchingegni della nuova tecnologia che avanza, altrettanto misteriosi (per me, almeno), e infine il “tema” del lungo viaggio verso Oklahoma, attraverso la grande America. 
Come un veggente, che coglie con la sola imposizione delle mani il senso di un libro, così Maurizio ha visto, senza il bisogno di studi filologici, chiose, note e ricerche, quello che voleva far uscire dal testo. Da Amerika è uscito un discorso in cui Maurizio crede, e di cui abbiamo bisogno: un discorso contro tutte le discriminazioni, contro tutti i razzismi, contro tutte le violenze e gli ottusi autoritarismi.