Colazione da Tiffany – autore

La prima Holly

Truman Capote era stato costretto allo sradicamento fin dall’infanzia. Alla fine degli anni Venti Lilly Mae, sua madre, aveva preso l’abitudine di abbandonarlo con i parenti per mesi e mesi mentre lei passava da un riccone all’altro. Un po’ alla volta essere scaricato non lo fece più soffrire tanto – o forse si era soltanto assuefatto al dolore – e con il tempo adattarsi divenne il suo talento. Imparò a inserirsi in qualsiasi ambiente. Quando i genitori avevano divorziato, Truman aveva cinque anni e fu spedito a casa della zia a Monroeville, in Alabama: Lilly aveva finalmente la possibilità di saltar giù dal carro bestiame della provincia per montare su un rapido diretto verso la grande città. Si sentiva destinata alla vita di una donna di mondo, ricca e vezzeggiata, e solo a New York poteva riuscirci. Lilly Mae – o Nina, come si presentava in città – avrebbe raggiunto il suo obiettivo molto prima se non fosse stato per Truman, il figlio che non aveva mai voluto, e che aveva tentato di abortire. Spesso Nina piombava in Alabama senza preavviso, in un vortice di stoffe stravaganti, gli faceva due moine, si dichiarava pentita, e spariva. Poi, come se niente fosse, eccola di ritorno. Veniva immancabilmente scaricata dalla sua ultima fiamma per colpa di quell’aria provinciale che cercava invano di nascondere, se ne andava dall’ascensore di servizio e tornava di corsa da Truman con gli occhi gonfi come mongolfiere. Passavano un giorno o due. Nina si rendeva conto di trovarsi in Alabama e alzava nuovamente i tacchi per dare la scalata ai piani alti di Manhattan. Se Truman fosse stato più grande, forse sarebbe riuscito a non mettere il suo cuore nelle mani della madre, cosa che in futuro avrebbe imparato a fare con tutti gli altri, ma allora era ancora troppo piccolo e non poteva non amarla. Diceva di amarlo anche lei e a volte sembrava facesse sul serio, come quando se lo portava dietro in qualche hotel e gli prometteva che sarebbero rimasti insieme per sempre. Salvo poi chiuderlo a chiave tutta la notte in camera per filarsela nella stanza accanto a un rendez-vous mercenario con l’ennesimo elegantone. E ovviamente Truman sentiva tutto. Una volta trovò in giro una boccetta del suo profumo e, con la disperazione di un tossico, se la bevve. Non servì a farla tornare da lui, ma almeno in quei sorsi aspri la sentì più vicina. Quella boccetta – ciò che gli restava ormai della madre – fu la fonte di quasi tutte le sue creazioni di romanziere. L’idea di lei, come l’idea dell’amore e di una casa si rivelarono molto difficili da definire. Ci provò, comunque. Ma nessuna bottiglia di profumo o di whisky, non importa quanto intenso o accattivante, poté cambiare la realtà della sua assenza. E nemmeno le donne o gli uomini a cui si legò in seguito. Nessuno riusciva mai a riversare abbastanza calore nel vuoto che sentiva. Di conseguenza, Capote era in parti uguali desiderio e vendetta, si aggrappava alle persone con artigli che puntava contro di sé quando restava solo. La sofferenza era atroce, ma quegli arti strapparono sua madre al passato per metterla sulla pagina dove, sotto forma di parole, Truman riuscì a replicarne il profumo in una fragranza inesauribile di nome Holly Golightly. Al primo sbuffo di eau d’Holly, i lettori si innamorarono di Truman, dandogli l’unica cosa che aveva sempre desiderato da quando sua madre se n’era andata la prima volta, oltre all’illusione di avere finalmente una casa, un luogo di sensazioni familiari, un odore conosciuto, la sua sciarpa preferita o il fermacarte bianco a forma di rosa che teneva sulla scrivania mentre scriveva Colazione da Tiffany.

Fonte: ‘Colazione da Audrey’ di Sam Wasson, Rizzoli, 2011