Colazione da Tiffany – recensioni

Regge il paragone con la Hepburn

La prova più difficile era reggere il confronto con la Holly interpretata da Audrey Hepburn, un simbolo di femminilità e romanticismo a un tempo. Prova pienamente superata da Francesca Inaudi che, nell’adattamento teatrale di Colazione da Tiffany, diretto da Piero Maccarinelli e andato in scena al Rendano di Cosenza, prende il personaggio creato dalla penna di Truman Capote e ne fa qualcosa di assolutamente nuovo (rispetto al film di Blake Edwards) ed efficace. Holly Golightly diventa una ragazza frivola e inquieta al tempo stesso, affascinante e imprevedibile. Del resto, l’intento del regista era proprio quello di essere più fedele possibile al romanzo che rese celebre lo scrittore statunitense e all’adattamento teatrale che ne fece Samuel Adamson. Così, niente lieto fine da commedia sentimentale, quello che tanto fece arrabbiare Capote dopo l’uscita del film del 1962. Ma un finale aperto, proprio come nel romanzo. Con la protagonista che prende l’aereo per il Brasile, alla ricerca di una nuova avventura e con lo scrittore-narratore (interpretato da un bravissimo Lorenzo Lavia) che riesce a coronare la sua ambizione letteraria. Nella bella scenografia di Gianni Carluccio, l’azione si svolge su tre piani, quelli degli appartamenti dei personaggi (sul palco anche Mauro Marino, Flavio Bonacci, Anna Zapparoli, Vincenzo Ferrera, Giulio Federico Janni, Cristina Maccà, Ippolita Baldini, Riccardo Floris e Pietro Masotti) e un mobile col bar di Joe Bell, che scandisce i cambi di scena e i passaggi temporali. Lo sfondo è quello della seconda guerra mondiale, con la crisi economica da annegare in alcol, festini e ironia pungente. Il pubblico ride e si diverte. Ma dimenticate la leggerezza del film che ha consacrato Audrey Hepburn a icona di eleganza. Lì la malinconia si stempera nell’idea che l’amore alla fine trionfa sempre, nello spettacolo prodotto dalla Compagnia Gli Ipocriti tutto è più complesso. Come la sessualità dei due protagonisti, visto che non mancano allusioni alla bisessualità di Holly e all’omosessualità di Williams Parsons, l’aspirante scrittore che è anche il narratore della vicenda, oltre che alter ego di Capote (tanto da portare un cognome molto simile a quello vero dello scrittore). Nulla a che vedere, dunque, col Paul interpretato nella pellicola da George Peppard: aspirante scrittore sì ma anche amante mantenuto di una ricca signora. Uno spettacolo riuscito, dunque, che non fa rimpiangere neanche la celebre scena valsa un Oscar per la migliore canzone ad Henry Mancini, quella in cui la Hepburn canta una struggente Moon River dal davanzale della sua finestra. La Inaudi (brava anche come cantante) intona Over The rainbow. Tanto per far capire che la Holly cinematografica e quella teatrale appartengono a due immaginari differenti.

Simona Negrelli

il Quotidiano della Calabria

20-04-2012


Truman Capote, amare riflessioni

Il film non c’entra niente. L’operazione che è stata fatta dal regista Piero Maccarinelli, nel portare in scena “Colazione da Tiffany”, è proprio quella di allontanare qualunque relazione possibile con la celebre pellicola firmata da Blake Edwards e interpretata da Audrey Hepburn e George Peppard. Basandosi esclusivamente sull’adattamento teatrale che Samuel Adamson fece del romanzo di Truman Capote, restandogli fedele, cambia l’ambientazione temporale e gli stessi personaggi, soprattutto quello della protagonista Holly, impersonata da Francesca Inaudi. Non siamo negli anni ’60, ma nella seconda metà degli anni ’50 e, i fatti raccontati-ricordati dal giovane scrittore William Parson, si riferiscono al 1943. Il personaggio della frivola e scoppiettante Holly, prostituta d’alto bordo a caccia di sistemazione economica, svagata e a suo modo dotata di una disarmante innocenza, non somiglia alla raffinata e algida Hepburn, piuttosto alla ingenua carnalità di Marilyn Monroe, l’attrice che Capote avrebbe voluto nel film. Anche Lorenzo Lavia, nei panni di Parson, sposta la prospettiva del suo personaggio, rendendolo candido e indifeso nella sua vera o presunta frustrazione di scrittore in crisi di ispirazione. Sullo sfondo di una New York bizzarra e godereccia, intorno ai due protagonisti pullula un microcosmo di fotomodelle, stravaganti, miliardari, mafiosi improbabili, cantanti liriche disoccupate, giornaliste pettegole. E in un saliscendi di scale, tra monolocali comunicanti, nella scenografia di Gianni Carluccio sviluppata soprattutto in senso verticale, si districano le storie e i sentimenti, leggerezze e inganni. Un vuoto esistenziale che, sia pure con la dovuta ironia della commedia sofisticata, spinge lo spettatore ad affacciarsi su una voragine di amare riflessioni.

Emilia Costantini

Corriere della Sera – Edizione Roma

26-03-2012


Ricordando Tiffany

Piero Maccarinelli considera Colazione da Tiffany non tanto il film di Blake Edwards con Audrey Hepburn e George Peppard, bensì, o almeno in primo luogo, il romanzo di Truman Capote (1958) da cui Samuel Adamson ha tratto una pièce teatrale. Ha dunque messo in scena il testo, non la pellicola (lo spettacolo è all’Eliseo di Roma fino al 1° aprile), celebrando essenzialmente l’inafferrabilità di Holly Goligthly, personaggio centrale dell’uno e dell’altra. Lo ha fatto secondo un precisissimo disegno di atmosfere, abiti, movimenti, atteggiamenti, citazioni d’epoca. E si è avvalso di due giovani leoni molto duttili, Francesca Inaudi e Lorenzo Lavia. I quali, nei panni della mitica fanciulla-puttana, e dell’aspirante scrittore William Parson, capitato a New York in cerca d’ispirazione, non sgarrano una mossa. Nella prima parte c’è l’East End fiorito di figure “clamorose”: l’agente di Hollywood, il bel diplomatico brasiliano, il mafioso italoamericano, il gestore di un bar… tra la graziosa falena sempre a caccia di milionari e lo spaurito creatore di racconti si crea un feeling non definibile. Importante, nell’economia della rappresentazione, la costruzione scenografica di Gianni Carluccio: sviluppata in altezza, permette all’appartamento di Holly, che profuma di equivoco, di far entrare e uscire chiunque scavalcando un davanzale oppure usando le scale antincendio. Nel secondo atto, Holly è costretta a scoprire le sue carte e si trova davanti un marito da tempo rimosso, oltre ad altre situazioni indigeste. E’ ancor più viva, qui, la sensazione che i protagonisti rispettino in primo luogo gli stilemi della regia: patinati anche nella tempesta, efficienti, a tratti volutamente parodistici (corpo da gran premio lei, cinguettii, intenerimenti, forzate effervescenze; lui con le stimmate dell’umanissima vaghezza artistica che molto dà e molto comprende). Più “liberi” i bravi comprimari, Mauro Marino, Flavio Bonacci, Anna Zapparoli, Vincenzo Ferrera, Giulio Federico Janni, Cristina Maccà, Ippolita Baldini, Riccardo Floris, Pietro Masotti.

Rita Sala

Il Messaggero

22 marzo 2012