Don Chisciotte – curiosità
Il Don Chisciotte di Scaparro viene riproposto, in una nuova edizione e dopo lo straordinario successo ottenuto venti anni fa (in Italia, in Europa e negli Stati Uniti), anche in occasione delle celebrazioni che il governo spagnolo ha organizzato in tutta Europa per il IV centenario della prima pubblicazione del celebre romanzo di Cervantes.
La vita teatrale di Don Chisciotte
Il mito è antico ed ha attraversato il pensiero delle grandi scuole filosofiche greche e romane. Di fronte alla fugacità dell’esistenza ed al carattere effimero della felicità umana, era quasi d’obbligo che alcuni uomini pensassero che la vita potesse essere concepita come una rappresentazione teatrale. Due titoli del nostro Calderòn, riassumono questa antica allegoria, riscritta – XVII sec., Spagna, Contoriforma – dalla prospettiva cattolica ed assolutista del suo tempo: «La vita è sogno» e «Il grande teatro del mondo».
Dietro, come decorazione di fondo, vi erano le nostre medioevali Danze della Morte, dubbio conforto degli umili, nelle quali re e vassalli, ricchi e poveri, erano uguagliati al termine della loro esistenza. Se la vita non era altro che sogno, e la nostra felicità o la nostra disgrazia semplici episodi di una rappresentazione teatrale, non restava altra verità che la religione e l’eternità dell’oltretomba, cioè, la vita che inizia quando cala il sipario.
Guardando bene, era una riflessione in cui la vita terrena ed il teatro meritavano – e lasciamo da parte, ora, le contraddizioni che la storia della Chiesa contiene al riguardo – lo stesso disprezzo. Se vivere era rappresentare, non ci restava altro che interpretare bene la parte, affinché Dio, il primo e più terribile dei critici teatrali della storia, applaudisse o condannasse la nostra recita, spedendoci addirittura all’inferno o in paradiso (per fortuna, i critici terreni non hanno mai avuto questo potere!). Di fronte a questa concezione della vita e del teatro, ne esiste un’altra che intende i termini in un modo molto differente.
È quella che vede nella maschera, nella finzione teatrale, il gioco che permette di scoprire l’uomo potenziale che è in tutti noi.
La storia sociale avrebbe provocato un insieme di repressioni, di idee e di minacce, a cui l’immensa maggioranza degli esseri umani avrebbe risposto con la cautela del cosiddetto senso comune. In fondo, però, avrebbe continuato a pulsare una vita immaginaria, confortata, momentaneamente, dall’arte, ma sempre in attesa di una follia, di una rivoluzione, di un amore o di una peste, per trasformarsi in azione.
Quindi, la vita sarebbe una rappresentazione nella misura in cui gli uomini preferiscono rappresentare ciò che sono anziché viverlo. La follia, solo apparente, svelerebbe i livelli di realtà che la saggezza cela. L’uomo saprebbe ciò che è, molto prima nel teatro che nell’azione quotidiana. Questa è, credo, la riflessione che emerge dalla bellissima lettura «teatrale» che Maurizio Scaparro ha fatto del «Chisciotte».
Non c’è bisogno di avventurarsi ne La Mancha, né di scontrarsi con i mulini fatti di legno e cemento. Don Chisciotte «va incontro» al mondo come un personaggio esce sul palcoscenico. È bene che i castelli li abbia fatti uno scenografo e che il giorno e la notte stiano nei comandi del tecnico delle luci. La follia, la vita immaginaria, va a combattere la battaglia partendo dalla sua stessa capacità per creare o trasformare gli esseri e gli spazi. L’idea di questo «Don Chisciotte» è quella di avere concepito come spazio immaginario proprio un teatro, che è il luogo delle follie accettate, l’ambito in cui, per principio, le bugie si trasformano nelle grandi verità.
Quando Don Chisciotte e Sancio incontrano il carretto dei comici, il secondo ha ben chiaro che la Morte è un comico mascherato; per il primo, invece, forse il comico è la Morte effimeramente mascherata da comico. Don Chisciotte ha la follia creatrice del teatro, quella che porta a rifare – o scoprire? – il mondo con la finzione. Il fatto è che non sa che finge o che è arrivato al punto di smarrirsi in quella zona insicura in cui si stabilisce il limite protettore tra il tangibile e l’immaginario.
Perciò, come ricorda Sancio, i Cavalieri Erranti non vanno sui carretti dei comici. Egli, però, ha nelle sue mani le chiavi del mistero. Vola mettendosi addosso soltanto un paio di ali di cartone, solca i cieli con Clavilegno e realizza lo strano miracolo – l’eterno miracolo del gran teatro – di rimpicciolire i saggi che si burlano della sua follia. Se Sancio assiste impavido alla litania di insuccessi, se, malgrado questi, continua a voler bene a Don Chisciotte, è perché il suo istinto gli dice, deve dirglielo, che bisogna essere attore invece di accettare la verità del prete e del barbiere. Don Chisciotte esamina le quinte tarlate di un vecchio teatro; si trucca allo specchio dei comici; recita il suo testo al centro della scena… È un attore che è diventato pazzo. Come direbbe Brecht, un Lear che ha finito per credere di esserlo. Soltanto che – e questa è la grandezza di Cervantes – la follia di Alonso Quijano non va in giro sciolta, né smarrita. Si trova, oltre la sua volontà, immersa in una dialettica continua, in una rissa ch acquista un senso nitido. Penso ora a Genet ed alle sue «ancelle»: in un mondo come questo, forse il teatro è la forma più pura e piena di libertà. Cambiamo il mondo se non ci piace, invece di bruciare, perché non cambi, i libri di Quijano.
Senza dubbio, «Don Chisciotte», come tutte le grandi opere, ha varie letture ugualmente lecite. Solamente i testi dogmatici ammettono un’unica interpretazione. E Cervantes è molto vicino sia al Rinascimento che al dogmatismo del Barocco spagnolo. Francisco Nieva, uno dei nostri più grandi uomini del teatro- autore, regista, scenografo, saggista -, ha scritto che Cervantes «appartiene a quella forma di maturità spirituale che chiamiamo modernità, ed in lui inizia un Secolo d’Oro che non si realizzò mai». Mi chiedo se la lettura di Mauirizio Scaparro, oltre ad essere una di quelle possibili, non sia perfettamente in consonanza con questa riflessione di Francesco Nieva. Perché il trionfo della Controriforma e della intransigenza fu, forse, la sconfitta di Don Chisciotte e della sua follia teatrale. Una follia – e questo sarebbe un altro aspetto importante nello spazio immaginario concepito da Scaparro – che si esprime sia sulla scena, sia in platea, come se il regista volesse ricordarci che la «bugia» teatrale è vera solo quando è condivisa dagli attori e dal pubblico.
Ciò che è ammirevole nel gioco è che i fili sono sempre allo scoperto. Chi si ricorderebbe, oggi, di Don Chisciotte, se non fosse un personaggio che si aggira per gli angoli della nostra vita immaginaria? Questo è ciò che, senza alcuna stregoneria, scopre il paradosso della teatralità.
Jose Monleon