Ecuba – note di regia

Quella umanità che nel V secolo, cogliendo il senso del tragico dell’esistenza umana, inventò la tragedia greca, è molto lontana dalla nostra, volutamente distratta dal dolore umano e dal suo destino mortale, tutta tesa com’è a congelarlo, imbellettarlo e nasconderlo, nell’impossibile desiderio di esorcizzarlo. Oggi la morte, riprodotta e ostentata in maniera ossessionante e ripetitiva, tradotta continuamente in immagine, pur nelle sue forme più cruente, ha finito per creare assuefazione, indifferenza al dolore. Goethe afferma che ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile e che se interviene o diviene possibile una conciliazione, il tragico scompare. E’ questa l’alchimia moderna: l’eliminazione del tragico dalla nostra vita. La televisione in questo è maestra e poiché costruisce un perfetto mezzo di persuasione-assuefazione, il potere la utilizza, quotidianamente, in tale direzione. L’immagine di un corpo morto, civile o soldato che sia, visto in tv fa l’effetto di uno di quei lacerti da bancone, di cui non ci chiediamo certo che vita ha avuto o quanto ha sofferto. Quando, dunque, mi è stata proposta la regia di Ecuba, prima ancora di analizzare il testo in questione e le vicende dei personaggi in esso coinvolti, ho cercato di capire come tradurre il senso del tragico in tragica assenza di tragedia. Il fastidioso gioco di parole, esplicita bene il mio senso di impotenza, di rabbia, dinanzi al perpetrarsi di una costante narcotizzazione delle coscienze, che, di fatto, allontana la consapevolezza della condizione umana e ne distrugge la dignità. L’idea della macelleria, algido obitorio sacrificale, si è fatta, dunque, strada visionaria tra i cadaveri animali di Hirst, le immagini pittoriche della filmografia di Greenaway e le lenzuola sporche di sangue di Nitsch, costruendo il possibile non luogo ideale per la rappresentazione del dramma euripideo. Il freddo bianco delle mattonelle, nella sua mortale eleganza, assente la truculenza granguignolesca, mi pare ospiti bene le atrocità di questa tragedia senza catarsi, senza scampo per nessuno dei suoi protagonisti. L’accumulo delle miserie umane, che in nome del potere, dell’ambizione, dei soldi, determina quell’escalation di morte, non mostra una goccia di quel sangue innocente versato, non impressiona più. La differenza tra corpo morto e corpo vivo si smarrisce tra i ganci delle celle frigorifere. Il cinismo di una borghesia volgare e vorace si traveste da ragion di stato ed emerge tra i grembiuli da macellaio, mentre il dolore disperato e lancinante di Ecuba si schianta e rimbalza sulle gelide pareti della macelleria. Ecuba è un testo straordinariamente moderno, in cui accanto ad una crudeltà spietata, tanto assimilabile a quella delle nostrane faide criminali, dove in nome dell’onore e dei vincoli parentali si può ottenere “soddisfazione” per il torto subito, trovano posto l’amore meraviglioso, assoluto di una madre e quelle richieste di pietà e giustizia disattese dalla consapevole sordità del potere, cui oggi siamo purtroppo abituati. “Vento, vento di mare, che rechi sul gonfio dell’acqua navi che rapide varcano muri d’acqua, dove, povera me, mi vuoi portare? Io, in un paese straniero,avrò il nome di schiava. In cambio dell’Asia che abbandono, avrò la stanza nuziale della morte, l’Europa”recita il coro prigioniero, prossimo ad un viaggio verso la schiavitù o la morte, e ci pare di sentire le voci emigranti, ormai spente nei fondali del mare dell’indifferenza.

Carlo Cerciello