Elettra – note di regia
Immaginiamo il teatro greco come residuo meraviglioso di una civiltà che solo in parte ci è nota, un meraviglioso reperto archeologico circondato dalla città moderna che avanza e lo ingloba. In questo luogo si rappresenta la tragedia per un pubblico composito ed eterogeneo che non ha certo più la stessa tensione e la stessa partecipazione degli ateniesi del V secolo.
Siamo in un accampamento fuori dalla città, in una povera comunità che vive ai margini della città e deve procurarsi i mezzi per il sostentamento, deve tessersi gli abiti per ripararsi e provvedere autonomamente alla sopravvivenza. Pastorizia e agricoltura, quindi, con le donne al telaio e alla ricerca delle provvigioni.
Il primo personaggio che incontriamo è un contadino miceneo che lavora la terra e, benché di nobile stirpe, è costretto ad una misera condizione sociale. Nonostante questo è felice, rispetta le leggi. È lo sposo assegnato da Egisto ad Elettra, che però non volendo corrompere il γενοϝ non ha contaminato Elettra col suo seme. L’ha lasciata vergine. Già da questa premessa si può capire che il punto di vista di Euripide nel mito di Elettra è correlato di vistosi emendamenti. Siamo lontani dalla πολτϝ ed Elettra è completamente spogliata dei segni e delle funzioni del potere. È schiava, vergine, e il suo ceto sociale è cancellato. È una vergine umiliata. Da qui il suo rancore, la sua carica selvaggia. Non le è consentito nemmeno di vestire i segni esteriori del potere che, anzi, rifiuta quando le vengono offerti. (vss.190-192). Vuole umiliarsi ancora di più, svolgere ruoli che le potrebbero essere risparmiati, caricarsi della brocca e scendere alla fonte a prendere l’acqua. Elettra è un personaggio ossessionato dall’omicidio del padre, umiliato, e che vuole ancora più umiliarsi; quello che Oreste incontra appena giunto ad Argo. E Oreste non si rivela subito alla sorella, l’agnizione si dilata, Elettra è determinata alla vendetta, decisa ad agire anche a costo della vita. Il suo pensiero e la sua azione hanno un’unica direzione quasi monomaniacale. La vendetta. Uccidere per vendicare.
E anche per Oreste lei si augura che pensiero e azione abbiano lo stesso fine ossessivo: la vendetta. Ma qui ci troviamo di fronte ad un Oreste tormentato dai dubbi sulla legittimità dell’ordine dato da Apollo. Anche lui vuole la vendetta ma non sa fino a che punto spingersi. È un uomo incerto in lotta con se stesso. Sa che non si possono violare impunemente le leggi morali e i vincoli naturali.
Ma è ancora il contadino che consente ad Euripide riflessioni sulla natira dell’uomo nella società.
“Quali sono i criteri per giudicare rettamente l’uomo?” , si chiede Oreste. Le azioni e i pensieri, le amicizie, nient’altro. Ed ecco di nuovo riportata ad una dimensione esistenziale tragica, ma totalmente umana, la vicenda.
È vicenda di uomini di fronte alla loro coscienza, al loro pensiero e alle loto azioni.
È l’oracolo di Apollo? È Apollo che spinge Oreste al matricidio, ma è ammissibile che il dio lo possa spingere a tanto? E bisogna lodare gli dei artefici di tutto? (vss.890-895).
Fino a questo punto, fino all’assassinio di Egisto compiuto quasi vigliaccamente (come vigliacco è stato Tieste, come vigliacco è stato Egisto) siamo nell’ordine dell’accettabilità degli eventi. Un assassino è stato assassinato. Ma oltre questo punto? Oreste dubita dell’oracolo, della volontà di Apollo, della giustizia del suo gesto. Acconsente con dubbi all’incalzare ossessivo e ossessionato di Elettra (vss.985-7).
Ma non è certo fino all’ultimo, dubita fino all’ultimo e chiama ancora in causa gli dei. Il matricidio, insomma, è connotato negativamente da Oreste: egli è cosciente che si tratta di un atto di annientamento e distruzione.
Euripide per bocca di Oreste “sembra criticare la religione tradizionale in nome di un razionalismo che induca l’uomo a cercare all’interno della propria coscienza, senza ricorrere a giustificazioni religiose o divine, una spiegazione alla realtà ambigua e sfuggente che lo circonda”.
Anche l’arrivo di Clitennestra, la regicida, è connotato in una luce più ambiguamente conflittuale. Già il contadino parlando della regina ci ha annunciato che, nonostante la sua crudeltà, ha voluto salvare la figlia. Ma il suo arrivo, con schiave frigie, un costume sontuoso su una portantina, e i tappeti che vengono gettati ai suoi piedi, un arrivo regale, si trasforma presto in arrivo mesto; Clitennestra è corsa dalla puerpera in pompa magna ed ora quasi si vergogna delle umili condizioni in cui la figlia è costretta a vivere. Si rivela una donna fragile provata da quanto è successo. È stanca, inerme, alla ricerca di una conciliazione.
Il matricidio viene compiuto. L’atto voluto da Apollo e da Elettra e voluto/non voluto da Oreste. È una mattanza irrazionale, ma quando è compiuto ecco che la ragione, il pensiero dell’azione, tortura la coscienza dei fratelli. Oreste è in lacrime, il coro li critica, Elettra stessa è come svuotata. L’apparizione dei Dioscuri, deus ex machina, è apparizione critica e fatua testimonianza di una svogliata e contraddittoria soluzione anche nell’ambito degli dei. Sembra quasi che non vogliano mescolarsi con le decisioni di Apollo, portano una soluzione, sì ma che non è totalmente condivisa. E sulla separazione dei due fratelli l’accampamento viene smontato, e Oreste, ormai già perseguitato dalle Erinni, è finalmente solo con se stesso giacché anche l’amico Pilade partirà con Elettra; se ne va, solo, ossessionato dalle Erinni, con l’enormità dei suoi pensieri e delle azioni compiute che lo porteranno alla follia.
Ritornano soli come erano all’inizio, Oreste ed Elettra, ma con una solitudine ancora più assoluta, e tutti se ne vanno dallo spazio scenico, portando via tende e quant’altro.
La terra, la città che avanza ritornano i protagonisti.
Piero Maccarinelli