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Se gran parte della diffusione del teatro di prosa di Eduardo è legata, ancor prima del testo scritto, alla memoria collettiva delle straordinarie interpretazioni dello stesso autore, ciò non vale anche per la relativa musica di scena. E questo non perché il Nostro non si avvalesse di prestigiose collaborazioni musicali o perché non avesse un forte legame ed interesse per il mondo musicale. Ma perché il teatro di prosa di Eduardo è concepito in maniera compatta come unità verbocentrica. Il rapporto tra musica e testo teatrale, a parte qualche tema d’ambiente in apertura e chiusura dei singoli atti, scaturisce quasi sempre come prolungamento naturale legato a specifici momenti drammatici. Spesse volte la sua presenza più che costituire un momento musicale in senso stretto, la si ritrova sotto forma di comportamenti sonori quali parodie di canzoni tradizionali (si pensi all’esecuzione contraffatta della pastorale natalizia in Natale in casa Cupiello) o, al limite, alle esecuzioni surreali di allusive sequenze fonematiche. Insomma, si tratta, quasi sempre di un gesto sonoro interno al contesto.
Partendo da queste considerazioni, il lavoro compositivo per Filumena Marturano si è mosso parallelamente su due piani che rappresentano due diversi sguardi sonori: quello interno e quello esterno. Questa scelta non è da intendersi in senso fisico, come meccanica collocazione nello spazio scenico delle fonti acustiche, bensì in senso concettuale, come collegata a specifiche funzioni drammaturgiche.
Il primo sguardo è quello interno. Interno alla tradizione culturale e temporale di Eduardo. Interno come interiorità. Un interno da intendersi quasi sempre come elemento allusivo. In questo campo si colloca, proprio come ouverture dello spettacolo, la rarefatta simulazione di un gruppo di posteggiatori musicali, un “concertino chapliniano”, che mima una improbabile esecuzione di un orecchiabile motivo di strada. O ancora la scansione metronomica di una pendola che scandisce inesorabile il tempo dell’azione; o, infine, la voce di Filumena che accenna la canzone “Sto criscenno nu bello cardillo”.
Il secondo sguardo, quello esterno, riguarda invece alcuni possibili sviluppi e trasformazioni di temi presenti nel testo di Eduardo. Un esterno rivissuto con inevitabile scarto spazio–temporale della nostra messinscena. Esterno come estraneo ad una concezione della tradizione appesantita dagli stereotipi: e qui, genialmente ricomposti ed esplicitamente ribaltati, si ritrovano proprio tutte le tipologie più convenzionali: figli abbandonati, amanti, servi devoti, madri, reminiscenze del mondo della prostituzione…
Cosi anche la musica guarda e commenta più a distanza con il timbro solitario e metropolitano di un sassofono o con il carattere di un commento cinematografico. Un mare tanto de-cantato bozzettisticamente diventa, per sottrazione, una mistura sonora sgranata. Una radio, fonte sonora della globalizzazione culturale, alterna musica tradizionale americana con quella africana. Mentre una voce inerme di un bambino ambulante canta per strada con emulazione neomelodica:
Vase carnale
dati int’ ‘o scuro,
parole doce
e giuramente sott’ ‘a luna.

Vita mia,
passo ‘e nuttate a chiederme,
vita mia pecché ‘e fatto accussì.
Pasquale Scialò