Filumena Marturano – note di regia
DELLA NECESSITÀ DI METTERE IN SCENA EDUARDO
Leggo in questi giorni l’intervista di un grande artista solitario che, tra le altre cose, stigmatizza l’inutilità di rappresentare Eduardo senza più Eduardo; opinione simile era già stata espressa qualche tempo fa, da un altro autorevole collega. È evidente che Eduardo come CHarlie Chaplin o Buster Keaton, in quanto interprete, è una “maschera assoluta”, cioè uno di quegli artisti che si congiungono così intimamente con i loro personaggi da non poterne più essere separati.
Chi mai potrebbe, se non scadendo in imitazioni da varietà televisivo, rifare Charlot senza essere Chaplin? Sembrerebbe allora che i due artisti di cui sopra avessero ragione. Ma Eduardo, oltre che la geniale ed irripetibile maschera di se stesso è stato anche un grandissimo drammaturgo e ha lasciato come patrimonio per il futuro parole, storie, umanità che sono assolutamente, indiscutibilmente rappresentabili anche senza Eduardo oltre Eduardo.
Forse certe invocazioni un po’ sospette di alcuni grandi vecchi del teatro italiano che tendono alla “santificazione” museale di Eduardo, certe affermazioni perentorie, rispondono più alla radicale tendenza “uraniana” di molta parte di questi artisti che teorizzano e auspicano diluvi e deserti dopo di loro, piuttosto che alle presunte vere intenzioni del signor Eduardo, il quale, a ottant’anni suonati, aveva invece ancora voglia ed energia di andare a fare lezioni di teatro per, come dicono gli orientali, “insegnare a costruire il tempio”, quando è trascorsa la stagione dell’aver imparato e dell’aver costruito.
Certo il teatro di Eduardo può provocare un effetto paralizzante per la “monumentalità” delle interpretazioni che lui, Titina, Peppino e altri grandi attori che vi si sono cimentati, ne hanno dato. Ma credo che sia indispensabile “profanare” il timore reverenziale che possono incutere le sue opere, per poterle penetrare e rileggere nel presente, con un rapporto di fedeltà e tradimento al tempo stesso.
Fedeltà al congegno, straordinariamente perfetto, della struttura drammaturgica, dell’umorismo, del ritmo narrativo. Tradimento rispetto a certe modalità interpretative che rischiano di dare origine a sgradevoli cascami manieristici d’imitazione eduardiana, e non di sostanza.
Penso in primo luogo alla recitazione, ma anche allo spazio scenico e alla possibilità di sottrarlo a un certo realismo, di provare a simbolizzare nella scenografia, certi nuclei tematici profondi della scrittura: la camera da letto-“ring” su cui si battono Filumena e Domenico assistiti dai loro “secondi” Rosalia e Alfredo, nel primo atto, anziché il salotto umbertino suggerito dall’autore; il “trasloco” in cui incessantemente vagano tutti i personaggi del secondo atto, come se la casa perdesse la sua rassicurante intimità e li vomitasse fuori sul pianerottolo, come sfollati senza più luogo di appartenenza, dove tutti sono solo di passaggio. Poi finalmente entrare nella casa trasformata in un “tribunale” in cui si processano l’inganno e la finzione di Filumena e dove Filumena, rovesciando l’accusa, processa l’ipocrisia del mondo “cu tutt’ ‘e llegge e tutt’ ‘e diritte”, che non ne vuole sapere di chi da sempre vive e sopravvive ai margini. E infine una terrazza d’atmosfera cechoviana dove far svolgere l'”happy end” del terzo atto in cui si ricompongono, senza enfasi, con pudore, i conflitti; e la struggente tenerezza di Filumena che corona con un matrimonio fuori tempo, il suo sogno di “dignità” come una buffa Cenerentola che arriva ala ballo del principe ormai vecchia e con le scarpe nuove troppo strette … C’è ancora tanto da raccontare di questo testo, se si supera la “sindrome da confronto” che può originare solo il fantasma sterile e deleterio del tentativo di variazione virtuosistica : non c’è nessun “do di petto” da produrre sui testi di Eduardo, sulle sue battute note come le arie delle opere di Verdi, non c’è da stabilire o esibire certificati di idoneità alla “rappresentazione doc” delle sue opere, ma solo trattare Eduardo da quel geniale autore internazionale che è, capace di utilizzare Napoli e la sua umanità come metafora del mondo.
La vitalità del teatro di Eduardo si misura, infatti, nella capacità, propria solo dei grandi testi e dei grandi autori, di contenere livelli molteplici di significato che persistono nel tempo senza isterilire come mummie rinsecchite in un museo, ma continuando a irradiare altri racconti, nel presente.
Cristina Pezzoli