Vai al contenuto

I PERSONAGGI:
splendore e miseria di un’umanità non solo immaginata

In un’opera che come questa offre una visione integrale della realtà, così dell’uomo come del consorzio sociale, è vastissima la gamma dei tipi che partecipando alla vita della città, contribuiscono a tessere la fitta tramatura della vicenda. Nella loro ricchezza di sfumature, nei movimenti contraddittori che li animano, nella forza e nella fiacchezza che li attraversano è il principale nucleo di modernità. Il lavoro su questi personaggi, condotto con l’intento di rinvenire i tratti più vicini alla nostra sensibilità, ci ha portato a disegnare un’umanità che si pone di fronte alla natura misteriosa del mondo, sprovvista di risposte e costretta a consumare il proprio tempo in una marcia coatta sul bilico della vita.

CELESTINA
Chiusa in se stessa nonostante sia sempre in azione, è donna il cui codice morale personalissimo, non coincide con alcun dettame di ordine sociale e religioso. Armata di uno scilinguagnolo che le consente di comunicare con ogni tipo di persona, è in grado di tessere una tela relazionale tra ricchi e poveri, servi e padroni, donne e uomini, clero e prostituzione. Questa abilità unica la investe di un ruolo socialmente riconosciuto, a cui viene attribuito il prestigio proprio della categoria. La prontezza dell’azione che quasi tutte le figure femminili di questa commedia presentano, in Celestina è di qualità superiore, perché consiste nel piegare la volontà altrui alla propria, attraverso strategie variate, che attingono a quell’arte della seduzione di cui la donna è maestra. La sua intelligenza creativa si manifesta con particolare evidenza in quelle situazioni impreviste, che costituiscono il punto di partenza per un nuovo corso degli eventi, in cui Celestina sfoggia una capacità d’improvvisazione, che è segno assieme di originalità e concretezza popolare. Il suo carattere energico rivela però in alcune scene, per lo più all’interno delle mura domestiche, improvvisi strappi di emotività, che producono rapidissimi cambi d’umore. È il suo centro d’infelicità che esplode in tirate sulla rimpianta prosperità del passato o in momenti di vuoto in cui la sua saggezza si esprime in cupe considerazioni sulla fugacità della vita. Questo progressivo disarmo rispetto al presente che cambiando la esclude, la induce a commettere una tragica sequela di errori, quando i due servi le si presentano reclamando la parte del bottino. Celestina è avara nel momento sbagliato, è provocatoria fuor di luogo, è scherzosa quando le si chiede serietà e accavallando le menzogne che ben sapeva snocciolare, con un’ingenuità grottesca a lei nuova per la prima volta perde il controllo della situazione, con conseguenze fatali. È l’errore intrinseco alla creatura tragica, la cui intelligenza, muovendosi entro i limiti della fallibile natura umana, condanna inevitabilmente alla sconfitta.

CALISTO
Un giovane ricco, viziato e annoiato, che orienta la percezione del mondo in base a bisogni estetici, narcisistici e a pulsioni, pateticamente mascherate da una presunta vocazione amorosa. I suoi sospiri, i lamenti, le promesse snocciolate con logorroica vezzosità, disegnano un individuo futile e inconsistente, che si crogiola vigliaccamente in un privilegio di nascita. Calisto, il bello, il maschio superiore, il cui arrivo è ironicamente preannunciato dal volo del suo falcone, come nella migliore letteratura cortese, è il superficiale che confonde ciacola e sillogismo, compagnia e amicizia, ostentazione e generosità e rimescola le sue false consapevolezze con l’arroganza imbarazzante dell’opportunismo. Se la critica si è lungamente interrogata sul motivo di fondazione de La Celestina, non intendendo la ragione per cui l’amore tra due giovani di pari estrazione non potesse svilupparsi nell’accettazione sociale, nello spettacolo si è voluta evidenziare la gratuità del comportamento di Calisto, ostinato ad un gioco di seduzione illecito in cui la consumazione dell’atto erotico coincide con la segretezza e il pericolo, in virtù di un piacere trasgressivo che surroga qualsiasi sentimento.

MELIBEA
Personaggio dal rigido guscio borghese, formalizzato in base a codici comportamentali fissi, che rispecchiano un’educazione oppressiva, Melibea compie nell’arco narrativo il percorso più esteso. L’incontro con Calisto, l’esperienza della sessualità condotta nell’inconsapevolezza a cui è ridotta dal permanente distacco dal mondo impostale dal ruolo sociale, la riducono ad uno stato di oscillazione emotiva in cui i soprassalti si alternano agli abbattimenti della depressione. La scoperta della propria interiorità visionaria viene poi illuminata cognitivamente dal tempestoso colloquio con Celestina, per cui la ragazza, con un’improvvisa virata si ribella agli imperativi della sua condizione, per sprigionare una vitalità e una prontezza all’azione che non hanno paragone in Calisto. È questa intelligenza attiva, messa all’immediato servizio della realtà, che la segna fino alla fine, quando, nel parossismo del dolore, dopo aver annunciato al padre l’intenzione di por fine al dilaniante contrasto che il confronto con il mondo le ha prodotto, sceglie, unica in tutta l’opera, di morire gettandosi nel vuoto.

SEMPRONIO
La fondazione dei personaggi dei servi è partita da un dato di concretezza: questi personaggi di Rojas sono sostanzialmente rudi, cinici, disabituati alla tenerezza. Il loro tono di base è espressione di un risentimento verso la vita, che non trova sbocco se non nell’eccesso comico, nella fanfaronaggine o nella saccenteria del luogo comune. Sempronio è il campione di questo mondo vigliacco e inconcludente, che pur disprezzando i ricchi non riesce mai a ribellarsi, né sa conquistarsi uno spazio vitale senza ricorrere alla truffa e alla violenza. Anche nel rapporto di pseudo-complicità che lo lega a Celestina, Sempronio tradisce la sua inerzia mentale: tanto quanto la donna è intraprendente, cosi lui è passivo e intempestivo. Il suo tempo interiore è tardo e il lavoro che l’attore ha compiuto nella caratterizzazione di un corpo altro esprime con puntualità questo carattere. Sempronio ha la durezza ingenua degli uomini di campagna, coniugata a un caparbio orgoglio popolare, che si colora di toni spontaneamente misogini all’incrocio con l’universo femminile. La stessa relazione con la prostituta Elicia, declinato sulle paradossali pretese di un integralismo amoroso a cui la donna per definizione non può aderire, è scontro continuo e irrisolvibile, punteggiato dalle regolari amnistie che coincidono con le sue tempeste ormonali. Come nella migliore tradizione ironica chi si arroga il diritto di elargire consigli e sputare sentenze è proprio uno dei personaggi che maggiormente incarna la debolezza di spirito e di carattere.

ELICIA
Irritabile, inquieta, dura, indocile, attraversata da continui scoppi d’ira, Elicia, figlioccia di Celestina, è la protagonista grigia di un mondo marginale e infelice, da cui sogna di evadere conquistando i modesti privilegi di una quotidianità piccolo borghese. Covando questa speranza, che proietta con ingenuità nel rapporto che la lega al balordo Sempronio, è costantemente frustrata dal trattamento superficiale che questo le riserva e lo ripaga con doppiezza quando ostentando una disinvolta abilità mistificatoria, che la apparenta alla maestra Celestina, riesce ad ingannarlo con un amante inscenando un incontenibile attacco di gelosia. Elicia anche nell’esercizio del mestiere è una giovane vecchia, al tempo stesso disinibita e indifferente, abituata allo squallore e candidamente disgustata. Cosi la convivenza con Celestina si snoda in continue schermaglie che in realtà oppongono soltanto due gradi diversi dello stesso atteggiamento fatalista. Ma la comunanza tra le due donne, la traiettoria di forza che ne connota la resistenza spietata appare con evidenza nelle ultime scene dello spettacolo, quando sarà proprio Elicia che, superata l’esperienza della perdita, rifonderà l’impresa malavitosa della vecchia, senza rinunciare al gusto acre e vitale della vendetta, trasformandosi anzi nella temibile Erinni che celebra in questa tragedia contemporanea un rito di morte da cui è esclusa ogni catarsi.

PARMENO
Diverso dal rivale e poi compare Sempronio per temperamento e sensibilità, Parmeno è il servo giovane, che fin dall’inizio rivendica il proprio ruolo in una società portata ad enfatizzare l’infallibilità della saggezza dei vecchi. La sua intelligenza vivace è costantemente attraversata da una vena di sarcasmo, che si indirizza prevalentemente contro il mondo basso da cui proviene. Figlio di balordi, restato solo in tenera età, Parmeno ha trascorso un periodo dell’infanzia proprio nel bordello di Celestina, dove i traffici e i maneggi a cui ha assistito hanno profondamente impressionato la sua vivida fantasia. Il suo legame con Celestina è ancestrale, la donna è l’effige di una maternità scomposta e blasfema, da cui il ragazzo tenta freneticamente di staccarsi, scegliendo di andare a servizio nella ricca casa di Calisto. Il suo ingegnoso tentativo di ascesa sociale è però bloccato dalla truffa ordita da Sempronio e Celestina alle spalle del ricco. Parmeno viene corrotto dalla mezzana con la promessa di un abboccamento con una prostituta: l’ideale del giovane cede il passo all’istinto dell’uomo. Ma l’iniziazione del ragazzo, che pure avviene con la tenerezza tipica dell’inesperienza, tradisce presto il suo carattere strumentale: il sentimento che nasce non riesce a frapporsi al crudele incalzare degli eventi e Parmeno, ormai ingranaggio di un meccanismo inarrestabile finisce per espletare la sua funzione di sanguinario vendicatore. Né l’intelligenza, né la sensibilità riescono a salvare il ragazzo dalla sua natura e la sua storia si scandisce secondo le tappe di una violenta educazione alla vita: “Zì Celestì, tu u sapìa che c’era u diavulu pure dint’a panza mia. Io nun lo sapìa.”

AREUSA
Costruito già dall’autore con una modalità complementare a quello di Elicia, questo personaggio incarna solo apparentemente un ideale di libertà ed emancipazione. Areusa è la puttana in carriera, che grazie alle sue doti fisiche è riuscita a conquistare un amante fisso e a farsi mantenere in una casetta indipendente. La sua autonomia è però limitata, come dimostra la chiara relazione di rispetto professionale che la lega a Celestina e che risulta evidente quando la donna la prega di concedersi al giovane Parmeno.
Areusa soggiace al meccanismo di interscambio che regola i rapporti mondani e il comportamento solo inizialmente ritroso conferma che la natura dei suoi scrupoli, come nel caso di Lucrezia, è determinata da motivi di puro interesse. Eppure brandelli di una solarità non del tutto negata la investono talvolta svelandone una morbida sensualità, che si spande con pienezza nella scena del sesso, forse l’unico momento autenticamente felice di questa violenta sarabanda di emozioni.

LUCREZIA
Tratto centrale della giovane serva di Melibea è un’invidia feroce verso il mondo. Lucrezia è povera, Melibea è ricca, Lucrezia è brutta, le cugine Elicia e Areusa sono belle, Lucrezia vive chiusa in una casa fredda e formale, dove i ruoli sono rispettati con ferrea precisione, Celestina e gli altri abitano le pericolose strade di una periferia urbana di commovente umanità. La donna consuma un’esistenza di esclusione confinata com’è nella contemplazione di una vita che la esclude. Cosi, la sua figura si è trasformata via via e a discapito del carattere di onestà che pure presentava, si è preferito privilegiarne il tono livido e risentito di chi, ingannato dalla fortuna, e disilluso sul futuro, finisce per vivere dentro la sua misera buccia di dolore.

TRASO
Il personaggio di Traso, che compare in una delle ultime scene dello spettacolo, nasce dalla commistione di due figure dell’originale Centurio, l’assassino prezzolato, e Traso lo zoppo, ultimo anello nella catena della malavita organizzata. Il nostro Traso prende spunto dalla figura del “capuziello” napoletano, il piccolo capo, che annidato come un rettile sul suo muro spruzzato dai graffiti, spunta dal suo ambiente non appena qualche situazione ne richiede l’intervento definitivo. Come Centurio vantava una spada affilata reduce da sanguinose imprese, il giovane Traso sfodera “la molla”, il coltello a serramanico con cui è uso compiere i suoi atti di giustizia sommaria e con un atteggiamento strisciante e sensuale stipula il patto con le due donne giunte a chiedere vendetta, pronto a dare seguito all’ennesima faida moderna.

PLEBERIO
Nello spettacolo, Pleberio, padre di Melibea, appare in scena solo in chiusura, spogliato da qualsiasi riferimento realistico che lo connoti individualmente. È il Padre, in quanto Uomo nel flusso del Tempo, costretto alla ripetizione insensata di un ruolo, maestro di un cerimoniale di svelamento, che apostrofa il mondo con l’amara consapevolezza del perdente.
Come il buffone di un circo abbandonato, che non nega le affinità con il teatro-mondo shakespeariano, e d’altro lato rimanda alle larvali presenze di un Beckett, Pleberio è l’essere androgino, incaricato, nel suo grottesco travestimento di testimoniare la voce flebile e rabbiosa di un’umanità sofferente.