La gatta sul tetto che scotta – recensioni

PUCCINI, UNA GATTA DA APPLAUSI

Al Comunale l’ultima replica del capolavoro di Williams con uno splendido Marchioni

Ultima serata al teatro Comunale di Caserta per Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni protagonisti de “La gatta sul tetto che scotta”, capolavoro di Tennessee Williams nella traduzione di Gerardo Guerrieri, per la regia di Arturo Cirillo. Secondo Premio Pulitzer nel 1955 per il drammaturgo statunitense (il primo nel 1948 gli venne assegnato per Un tram che si chiama desiderio), La gatta sul tetto che scotta narra la storia di una donna, Maggie, che per alleviare la cocente situazione familiare in cui si trova, imbastisce una rete di bugie. Di bassa estrazione sociale, Maggie la gatta, teme di dover lasciare la casa ed il marito, se non riesce a dare alla famiglia di lui un erede. Tra giochi passionali e abili caratterizzazioni, affiorano sensualità cariche di sottintesi e di contenuti inespressi o inesprimibili; all’ideale della purezza dei sentimenti si contrappone la dura realtà di un mondo familiare e sociale pieno di ipocrisie.
La famiglia è ancora il luogo dove Williams fa risuonare le sue parole, il luogo dove, grazie alla sua capacità di narrare i sentimenti dei personaggi, un gruppo di attori possono dare vita ad una coralità di conflitti. E’ difficile trovare in questo autore dei personaggi non risolti, dei personaggi di cui sia difficile trovare una propria emotività, sarà anche perché lui non sembra avere paura del melodrammatico, dell’eccesso, del melò, anzi li usa come parte della nostra vita.
Pochi scrittori di teatro come lui hanno avuto un rapporto così forte con l’immaginario, e non a caso la più grande industria del sogno che è il cinema lo ha coinvolto spesso, infatti “La gatta sul tetto che scotta” è un celeberrimo film hollywoodiano degli anni ’50. Ma prima è stato un testo per il teatro dove si concentra in un unico spazio temporale e fisico l’ossessione di un’idea di amore impossibile, perché troppe sono le rinunce di una famiglia dedita al successo e ai soldi, alla proprietà, in cui la vita appartiene a chi la vive secondo la più bieca convenzione. Sotto, nascosto da qualche parte ma che scalpita e brucia, c’è il sogno, di due uomini che si innamorano, di una donna che fugge dalla povertà della sua infanzia, di un dispotico e misogino padre imprenditore, fattosi tutto da se, che scopre davanti all’ipotesi della propria morte una fragilità ed una tenerezza per il figlio alcolizzato sportivo fallito. Ma anche il sogno della moglie di lui, donna abituata a fare di se stessa la rappresentazione vivente di una bugia ma che alla fine non potrà che farsi abitare dalla propria infelicità.
In un gioco drammaturgico di contrasti, dove alla mancanza di figli di una coppia corrisponde una presenza eccessiva e quasi nevrotica di bambini da parte dell’altra, dove mentre due coniugi si torturano per il loro non riuscire ad amarsi, si frappongono suoni di canzoncine e giochi di bambini, ma anche sinistri grida di falchi. Pochi personaggi sono così misogini come il padre di “La gatta sul tetto che scotta”, come pochi personaggi hanno in se una così forte femminilità come suo figlio Brick. Poi ci sono le donne, che hanno vissuto la complessità della vita e che si trovano a dover difendere il proprio amore contro un ondi che le offende, le isola, spesso non le ama. Come i vetri degli animaletti di un personaggio di un altro testo di Williams, “Lo zoo di vetro”, anche i personaggi di questo dramma si rompono, vanno in frantumi, facendo molto rumore, anche se ci sarà l’ipocrisia di chi dirà che non ha sentito niente, di chi non si è accorto che c’è una casa che brucia e sopra al tetto che scotta una gatta, che di saltare giù non ne vuol proprio sapere. Bravi Marchioni e la Puccini nei ruoli che al cinema furono di Paul Newman e di Elizabeth Taylor. E bravi gli altri attori in scena: Paolo Musio, Franca Penone, Salvatore Caruso, Clio Cipolletta e Francesco Petruzzelli.
Nicola Di Santo
Gazzetta di Caserta, 11 gennaio 2015


La vulcanica Maggie

FIRENZE: UNA GATTA DI RAZZA CON VITTORIA PUCCINI
La gatta sul tetto che scotta ha veramente sedotto il pubblico fiorentino, e senza bisogno di scabrosità o effettacci plateali

E’ una gatta decisamente seducente quella che ha esordito ieri sera al teatro della Pergola; grazie prima di tutto a una bravissima Vittoria Puccini, decisamente felina sia nella grazia che nell’aggressività. Del resto, lo aveva preannunciato in una intervista sullo spettacolo: “abbiamo lavorato molto sul corpo: il rapporto con la fisicità e davvero esplicito, non viene celato, soprattutto Margareth utilizza la sua sensualità perché è consapevole che può essere anche un’arma da utilizzare nel suo rapporto con gli altri (…) Non è assolutamente una donna borghese o convenzionale, a volte appare addirittura sfacciata: è in tutte queste sfaccettature della femminilità che risiede il suo fascino”.
Tutto questo è stato puntualmente tradotto sulla scena. La gatta sul tetto che scotta ha veramente sedotto il pubblico fiorentino, e senza bisogno di scabrosità o effettacci plateali. Vittoria ha dato vita a un personaggio inquietante e conturbante, ma soprattutto vivo e sanguigno, deciso a combattere a qualsiasi costo per ciò che ama senza trascurare il suo “particulare”, e soprattutto senza arrendersi mai.
Ma non era solo la protagonista, tutta la compagnia è stata nel complesso più che all’altezza mentre lo spettacolo scorreva ben calibrato, senza intoppi o pesantezze nonostante sia durato quasi due ore senza intervallo; ma in effetti è stato molto meglio così, perché spezzarlo gli avrebbe tolto la verve, ora comica, ora grottesca, ora lirica, che Tennessee Williams ha impresso a questo lavoro davvero notevole. La famiglia come “trappola”, la condanna dell’ipocrisia, la difficoltà di comunicare sono tematiche che possono ricordare anche Pirandello; ma nel drammaturgo americano appaiono molto più calate nella realtà, e soprattutto in un preciso contesto storico e sociale, quello dell’America degli anni ’50 del secolo scorso. Uno dei meriti della sapiente regia di Arturo Cirillo è stato proprio quello di aver perfettamente evocato e conservato questo sfondo, che poi ha tanti punti di contatto con quello in cui viviamo oggi: una famiglia “bene” di un vecchio self made man che giunto alla fine della vita si accorge di essere circondato, all’interno della sua stessa cerchia familiare, da una cortina di interesse e di ipocrisia: e i migliori – o più propriamente quelli meno indecenti, perché in Williams non esistono personaggi interamente positivi – sono coloro che in teoria dovrebbero essere i reietti, ovvero il figlio ubriacone Brick e sua moglie Maggie, ragazza venuta dai bassifondi e decisa a non ritornarvi, malgrado la crisi di una vita che di matrimoniale ha ormai solo l’etichetta.
E per l’appunto il Brick di Vinicio Marchioni è stato un degno contraltare della vulcanica Maggie: abulico e disincantato, in apparenza preda dell’alcol e di rimorsi più o meno inconfessabili (ma che alla fine verranno pienamente alla luce), capace però anche di accensioni soprattutto nella durissima discussione con il padre, da cui è in fondo meno lontano di quanto non creda. Perfetta la coppia di “bravi ragazzi” ipocriti, Gooper (Francesco Petruzzelli) e Mae (Clio Cipolletta), fratello e cognata di Brick, le cui premure sono esclusivamente interessate a ingoiarsi la proprietà del vecchio patriarca a cui si cerca di nascondere, almeno per il suo compleanno, la malattia mortale; a lui ha dato voce un Paolo Musio in perfetto equilibrio tra spavalderia, disgusto e rabbia: un personaggio “antipatico” ma decisamente umano, alla disperata ricerca di una autenticità soffocata da decenni di mielosa domestica ipocrisia a cui non sfugge nemmeno l’adorante e bolsa moglie interpretata da una Franca Penone a volte forse un po’ sopra le righe (e le urla) ma nel complesso efficace.
Un “gioco di squadra” condotto con abilità e un vero e proprio crescendo di tensione, grazie anche a una scenografia sobria ma più che decorosa e rispettosa del testo: una camera da letto con alcune “aperture ” verso un giardino esterno, costumi coerenti con il periodo storico, un commento musicale discreto e non invasivo, buon gioco di luci. Molto efficace anche la resa del finale, apparentemente “lieto” ma come giustamente sottolinea il regista, è difficile dire se sia veramente tale: il riavvicinamento di Brick e Maggie avviene in fondo proprio nel segno di quella “ipocrisia” che era stata ferocemente condannata. Uno spettacolo decisamente da vedere e da gustare, sperando tra l’altro in un comportamento più corretto di certi settori del pubblico che sembrano scambiare la platea per una salotto da pettegolezzo e per una sputacchiera. Il successo è stato comunque unanime e più che meritato, anzi dovuto.
Domenico Del Nero
www.totalità.it 21 gennaio 2015


Vittoria Puccini, quando un’attrice diventa vera e si mette in gioco

Di Vittoria Puccini sappiamo tutto o quasi. Dai successi romantico televisivi ai film d’amore.
Pensavamo e pensiamo che il suo habitat naturale sia il set. E’ perciò con curiosità, non disgiunta da un filo di scetticismo, che abbiamo seguito la sua voglia di mettersi in gioco a teatro ed un lavoro teatrale (La gatta sul tetto che scotta) del drammaturgo americano Tennessee Williams che, su due ore di spettacolo, ha un 50% del tempo sulle spalle della protagonista.
La Puccini se l’è cavata bene, anzi direi piuttosto bene, considerando che mostri sacri del passato sia in teatro, sia al cinema (es. Liz Taylor e Paul Newman), avevano dato grandi prove di sé.
La giovane attrice ha capito che il teatro arricchisce, obbliga a fare sempre e subito ferocemente bene e, quando tra gli applausi, è partito qualche “brava” ha guardato lassù verso il loggione con aria incredula e sbarazzina.
Alberto Brandani
www.albertobrandani.net – 22 gennaio 2015


“LA GATTA” INTRECCIO DI ANIME BUGIARDE

A 60 anni dal battesimo teatrale newyorkese cui seguì il film con Paul Newman ed Elizabeth Taylor era opportuno, oggi, che il melò de La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams – la crisi di un matrimonio dove il giovane marito è sprofondato nell’etilismo e nell’impotenza dopo la morte di un amico innamorato di lui – si traducesse in freddezza quasi metafisica, in geometrie d’ambiente e in dramma nevrotico più che omosessuale. Magari anche con potenziamento del conflitto tra figlio debilitato e padre misogino. Tutto questo si percepisce in una regia di Arturo Cirillo di segno contemporaneo, estranea a modernariato o riscrittura. La scena di Dario Gessati è un interno alla Edward Hopper con prevalenza di verdi e rossi, e una parete s’apre su fitti cespugli anziché su piantagioni del Mississippi. S’è scelto per la coppia un tono flemmatico e irremovibile. Vittoria Puccini (attesa, forse con perplessità, al suo debutto in prosa) tutto sommato coi suoi toni forti, con determinazione a senso unico, non sfigura nella parte di Margaret, la moglie “bianca” che non s’arrende. Dall’assai più rodato Vinicio Marchioni viene fuori un costante, encomiabile controllo di fisionomia, voce e posture d’un coniuge ingessato in una gamba e in un’esistenza entrambe urtate, dentro e fuori. Va aggiunto che in quest’edizione prodotta da Gli Ipocriti e dal Tetro della Pergola l’istinto di Cirillo a dare una fisionomia dei nostri giorni ai personaggi ha centrato benissimo il senso, l’autorevolezza problematica del genitore rampante e maschilista del marito sotto accusa, e il Papà di Paolo Musio, coi suoi scontri, i suoi manifesti indomiti, le sue nascoste debolezze, è encomiabile. Più che l’avidità alimentata da un asse ereditario che fa gola al fratello avvocato (con moglie), qui si direbbe che è la tanto nominata ipocrisia famigliare a stagliarsi come nodo drammatico, quasi tragico. Si, certo, quell’amicizia tutta maschile lascia idee sospese, ma la morbosità non funziona più. Lavorano con lucidità Franca Penone, Francesco Petruzzelli, Clio Cipolletta.

Rodolfo Di Giammarco
La Repubblica, 1 febbraio 2015


Graffia ancora “la gatta sul tetto che scotta”, con Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni

Sono rare, in Italia, le messe in scena de “La gatta sul tetto che scotta” il dramma teatrale di Tennessee Williams valsogli il secondo premio Pulitzer – dopo quelli per “Un tram che si chiama desiderio” – , che assurse anche a film di successo con Elizabeth Taylor e Paul Newman, diretto da Richard Brooks nel 1958. Si deve ad Arturo Cirillo riportarlo ora in auge in un allestimento di raffinata cura: sia per l’ambientazione pittorica di un interno domestico con evidente richiamo ai quadri dell’americano Edward Hopper, e, nello specifico, ai colori del celebre “Nighthawks”; sia per un cast appropriato d’interpreti, con principali protagonisti la coppia Vittoria Puccini (al suo debutto teatrale) e Vinicio Marchioni, ovvero Margaret e Brick, il cui matrimonio è un’infelice unione senza sesso e senza figli. Lui è un ex sportivo, ora alcolizzato, che non ha superato il suicidio del suo compagno di squadra e migliore amico, Skipper, di cui era tormentatamente e segretamente innamorato; lei, la “gatta”, che combatte il malanimo la sterilità del marito che ama sinceramente ma non più corrisposta perché egli la crede bugiarda e causa, involontaria, della morte dell’amico.

Su tutti incombe la figura del padre di Brick, autoritario barone terriero del Mississippi, insoddisfatto dei due figli, e condannato da un tumore del quale solo lui è inizialmente ignaro. L’equilibrio precario della coppia va in pezzi – per ricomporsi, in qualche modo, nel finale – in occasione di una riunione familiare per festeggiare il patriarca 65enne, e del confronto con un’altra coppia, apparentemente più serena, ma forse solo più ipocrita: Gooper, fratello di Brick, avvocato rampante e prolifico di prole, e la moglie Mae, decisi a strappare l’eredità del padre morente.
L’incalzare dei dialoghi e delle rivelazioni sortiranno l’effetto di una vera tempesta – anche esterna – che sconvolgerà le loro esistenze e che ha come snodo drammaturgico lo scontro tra Brick e il padre: il primo rinfaccia all’altro la sua latente omosessualità, e costui risponde prima confessando il proprio disgusto per le menzogne e per la falsità, poi svelandogli la gravità della malattia. Ed è a questo punto, in questo match verbale dei sentimenti, che egli libera una fragilità e una tenerezza mai manifestata per quel figlio alcolizzato.
E’ “La gatta sul tetto che scotta”, uno dei ritratti proverbiali di una famiglia anni Cinquanta che si sfalda per paranoie e asprezze da nido di vipere, contrapposti ai falsi “nidi d’amore”. Cirillo, fotografando il frantumarsi di un gruppo di famiglia in un interno, immette la storia sullo sfondo di una vicenda dei nostri giorni, anche se con una cifra stilistica che non ha particolari impennate come in altri suoi allestimenti.
Tutto si svolge in un unico ambiente, la camera da letto, con , a tratti, un’apertura verso l’esterno su una folta siepe di foglie – quasi un muro, come a impedire possibili vie di fuga, tra vociare concitato, suoni di canzoncine e giochi di bambini, ma anche sinistri grida di falchi. Evitando l trappola del melò, al quale il dramma sembra puntare, il regista misura la scansione drammaturgica con un linguaggio più asciutto, che non elimina quel lirismo tipico di Williams nella stesura originaria.
Vittoria Puccini, più che all’appeal sensuale di femmina mantide che risponde ai colpi, punta ad una felinità nervosa, ad una determinatezza di donna offesa e ferita ma mai arresa, che ben si addice alla sua prestanza, anche se la recitazione risente di una certa linearità. E Vinicio Marchioni, sia nei lunghi silenzi che nei pensieri trattenuti e nei toni espressi, ha tutta l’intensità magnetica e la sofferenza virile nel rendere lo stato d’animo – al quale aggiunge quello fisico della postura zoppa – di chi cova il disfattismo. Si aggiunge a loro la dirompente prova di Paolo Musio, nel ruolo del padre, e Clio Cipolletta, Francesco Petruzzelli, Franca Penone, Salvatore Caruso.
Giuseppe Distefano
Il Sole24ore, 27 febbraio 2015


LA “GATTA” GRAFFIA ANCORA

Allo Jovinelli di Roma la bella messinscena del testo premio Pulitzer di Tennessee Williams con Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni nei ruoli che, al cinema, sono stati di Liz Taylor e Paul Newman, regia di Arturo Cirillo

Perché in Italia attori e registi riscoprono drammaturghi come Arthur Miller e Tennessee Williams? Forse perché i loro testi offrono agli interpreti, al pari di quelli classici, ruoli a tutto tondo, ottime occasioni interpretative e, soprattutto, la possibilità di interagire con più di un collega. Il teatro contemporaneo, asfittico per esigenze economico-finanziarie, spinge infatti verso il monologo, verso i copioni a due massimo tre personaggi, che non sempre danno soddisfazione a chi ci lavora.
Ecco allora un Tennessee Williams d’annata. La gatta sul tetto che scotta, nella bella lettura di Arturo Cirillo, protagonisti Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni. Il testo, che valse allo scrittore il secondo premio Pulitzer, dopo quello ricevuto per Un tram che si chiama desiderio – divenne anche un film, nel 1958, per la regia di Richard Brooks e l’interpretazione di Elizabeth Taylor e Paul Newman. La storia è affascinante, sufficientemente contorta, americana ma non del tutto, spalmabile cioè su molti orizzonti. E a parte la collocazione ambientale, nel Mississippi, lo stato delle magnolie e dei pesci gatto nel Sud degli Usa, il resto – conflitti, tormenti, tentazioni – appartiene al bagaglio di possibilità che ogni essere umano trasporta con sé. Parliamo dell’incapacità di comprendere a fondo la propria natura, dell’atteggiamento non sempre lineare nei confronti dei genitori, dell’amicizia malintesa che può sconfinare in assurde aberrazioni.
Cirillo, nel suo spettacolo, versa molte buone cose. Deliziosa l’accuratezza dell’ambiente, che data di proposito la vicenda rifacendosi agli interni pittorici degli artisti Usa precursori della pop art. Ottima la scelta degli attori, dalla debuttante (in teatro) Vittoria Puccini, a Vinicio Marchioni, rispettivamente nei ruoli di Margaret, la “gatta”, e Brick, il marito che non la desidera perché prigioniero del presunto innamoramento per un amico morto suicida; da Paolo Musio a Franca Penone, Salvatore Caruso, Clio Cipolletta, Francesco Petruzzelli nelle parti minori.
Senza strafare, ma con grande sensibilità, il regista guida il cast nel restituirci un Williams fedele, capace di dare risalto al coraggio e alla costanza di una donna che vuole per sé, in tutti i sensi, il suo uomo, ma accende i riflettori direzionali sulla figura maschile, sia quella dell’irrisolto Brick, sia quella di Big Daddy, suo padre, il patriarca malato cui sembra giusto, a un certo punto, recuperare i veri valori della vita.
La Puccini, sorvegliatissima, adotta una recitazione quasi monocorde che però non nuoce alla sua Maggie, affrancata dalla povertà originaria grazie al matrimonio e comunque determinata a mantenere le posizioni acquisite, sentimentali e sociali, magari impiantandole, a fin di bene, su un castello di ipocrisie e menzogne. Davvero bravo Marchioni, che regala al suo personaggio, alternandole, una disperazione sognante e una vocazione autodistruttiva assolutamente williamsiane, presenti nell’interpretazione di Newman nel già citato film tratto dalla pièce.
Impossibile non citare il prezioso lavoro di scenografia di Dario Gessati, il gusto di Gianluca Falaschi nel realizzare i costumi, le luci di Pasquale Mari, le musiche di Francesco De Melis.
Rita Sala
Il Messaggero, 12 marzo 2015


“La gatta sul tetto che scotta”, regia di Arturo Cirillo
MARCHIONI E PUCCINI NELLA FOSSA DEI LEONI

L’interno di una casa borghese dalle grandi pareti tinte di azzurro acqua, un fondale illuminato, giallo cangiante, di fronte ad esso una parete che nel centro si apre per lasciar intravedere un giardino dalla rigogliosa vegetazione verde. A sinistra un grande letto matrimoniale simbolo dell’amore coniugale qui irrealizzato, vicino al letto una cassettiera. A destra, sul lato opposto, un mobile bar con una sedia; è qui che Brick passa la maggior parte del tempo, a dinoccolarsi con la sua gamba rotta e la mente offuscata dall’alcol. E’ la grande casa americana, di una famiglia agiata, un open space scenico che mette in comunicazione le stanze e dunque i familiari, quasi a non voler dar pace proprio a quell’alcova nuziale spesso al centro dei discorsi. Uno spazio che è anche una sorta di fossa dei leoni, nel quale Arturo Cirillo – alla regia di La gatta sul tetto che scotta visto all’Ambra Jovinelli di Roma – fa lottare i personaggi di Tennessee Williams senza scrupoli e sconti. Il drammaturgo americano li ha intrappolati in un dramma senza via d’uscita: lei, Margaret, la gatta che appunto preferisce stare su un tetto che scotta, è una Vittoria Puccini dal tono di voce graffiante e dalle energie fisiche sempre pronte a scattare; Vinicio Marchioni deve ricoprire invece il ruolo forse più difficile e a mancare probabilmente sono un numero maggiore di sfumature: Brick, ex campione sportivo che ha smesso a causa di un infortunio e ha perso anche il lavoro da cronista, è quasi sempre presente sul palco, ma le sue battute sono brevi anche se affilate, implode interiormente. Un vero e proprio leone da combattimento è invece il padre di lui: Paolo Musio, riempie la scena di umanità, è il più viscerale e il monologo in cui distrugge la figura della moglie (ottima la leggerezza di Franca Penone) credendo di non avere malattia alcuna, rappresenta uno dei momenti più alti dello spettacolo.
La regia di Arturo Cirillo, che in questo caso non ambisce a ricercare sponde di complessità ulteriori rispetto al testo, mira a far emergere la parola, sempre acida e pericolosa, a illustrare la drammaturgia. Parliamo d’altronde del secondo premio Pulitzer per l’autore americano dopo quello vinto con Un tram che si chiama desiderio. La scrittura, ancora pulsante nonostante la lontananza da quei soffocanti anni ’50 (contribuisce la traduzione di Gerardo Guerrieri), si sviluppa soprattutto attorno a due temi: la relazione arrivata al capolinea tra Meggie e Brick, «tu non vivi con me; stiamo insieme nella stessa gabbia e basta» – che deve vedersela con le ipocrisie e le lotte familiari per l’eredità– e un altro rimosso, l’ambiguità di una vecchia amicizia tra Brick e Skipper. È qui che Williams sfodera le sue carte migliori e Marchioni dà il meglio nella versione di Cirillo: in questa verità sospesa, che non ha i tratti e i contorni di qualcosa di assoluto, ma anzi sfuma nel relativismo, tra le nebbie della memoria, le percezioni dei personaggi e dello spettatore. Eppure questo non detto ha il peso di un macigno: nella società americana dura e pura di più di mezzo secolo fa (e probabilmente anche nella nostra attuale), non era neanche pensabile che due uomini potessero nascondere una relazione che andasse oltre l’amicizia; meglio la bugia, sulla quale costruire vuote apparenze.
Andrea Pocosgnich
www.teatroeocritica.net – 17.03.2015 – Cronache del garantista – 20.03.2015


AL DIANA UNA GATTA MOLTO PASSIONALE E MOLTO APPLAUDITA

La “ Gatta sul tetto che scotta “, nel 1954 valse a Tennessee Willliama il secondo premio Pultizer, dopo quello ottenuto per “ Un tram chiamato desiderio “. Un premio importante, pesante, che la dice lunga sulla complessità e la profondità di un testo teatrale che indaga sull’infelicità di una coppia e l’ipocrisia di una famiglia. Al Diana dall’8 al 19 aprile, la Gatta sul tetto che scotta, sarà gustata dagli amanti del drammaturgo americano. Un debutto caloroso ed applausi a scena aperta quello di Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni e di tutta la compagnia. Una piece, questa di Williams molto impegnata ed impegnativa per il debutto di Vittoria Puccini, diretta da Arturo Cirillo e affiancata, come detto da Vinicio Marchioni, un trio a cui va riconosciuto, l’impegno profuso per far si che questo testo possa essere di gradimento a tutti. “ La gatta sul tetto che scotta”, narra la storia di una donna, Maggie, Vittoria Puccini, che per alleviare la cocente situazione famigliare in cui si trovo, imbastisce un mondo di bugie. Di estrazione di basso ceto. Maggie , la gatta, teme di dover lasciar la casa ed il marito, se non riesce a rimanere incinta e, quindi, dare un erede alla famiglia di lui. Tra giochi passionali e abili caratterizzazioni, affiorano sensualità cariche di sottintesi e di contenuti inespressi. Ottima anche l’interpretazione di Vinicio Marchioni, nella piece è un ubriaco, ma non troppo, che riesce in una interpretazione sentita e sofferta- I toni impostati e frenati che salgono d’improvviso con l’entrata in scena di Paolo Musio, il papà; Franca Perone, la mamma; Salvatore Caruso, il reverendo; Clio Cipolletta, Mae, e Francesco Petruzzelli, Gooper, che alzano ancor di più il livello della recitazione. Rispetto al film, con Paul Newman e Liz Taylor, si è ripreso il testo originale, che negli anni del maccartismo era stato corretto e rivisto, lasciando da parte molti temi, diciamo scabrosi , come quello dell’omosessualità.
Alberto Alovisi
www.lostrillo.it – 9.04.2015


LA GATTA PUCCINI DI CIRILLO GRAFFIA E DIVERTE AL DIANA DI NAPOLI

Un dramma corale, in cui tutti i personaggi hanno il loro spazio e il loro spessore, che non disdegna diverse incursioni nella comicità corrosiva. Si potrebbe riassumere sinteticamente in questi termini “La gatta sul tetto che scotta” che vede protagonisti Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni, per la regia di Arturo Cirillo. Emerge tutta la forza e la magistrale tensione narrativa di un testo per cui Tennessee Williams ottenne il suo secondo Premio Pulitzer nel 1955, dopo quello vinto da “Un tram che si chiama desiderio”. Tre anni dopo venne poi il film di Richard Brooks con Elizabeth Taylor e Paul Newman, con sei nomination agli Oscar.
Colpisce nel segno ancora oggi la storia di “Maggie la gatta” (Vittoria Puccini), donna di bassa estrazione sociale che deve scontrarsi contro il muro di ipocrisia che regna nella famiglia del marito Brick (Vinicio Marchioni). Quest’ultimo, schiavo dell’alcol a causa del disgusto per l’ipocrisia che lo circonda, non sembra amarla né desiderarla. Anzi, spesso non la sopporta. Suo fratello (Francesco Petruzzelli) e sua cognata (Clio Cipolletta) sfornano figli a ripetizione e agiscono per assicurarsi la cospicua eredità del padre di lui (Paolo Musio), che non sa ancora di avere un cancro. Maggie vorrebbe concepire un erede per non essere buttata giù dal tetto che scotta sopra una casa che brucia, che pure ha conquistato con fatica. Ma oltre alla posizione sociale le sta a cuore anche l’amore e per questo finge di aspettare un figlio da Brick. Lo annuncia mettendosi a carponi come i gatti, posizione che assume mentre pronuncia diverse battute chiave. In mezzo a tutto questo riemerge il passato, con l’amicizia di Brick con Skipper, morto suicida e di cui si vocifera un’omosessualità condivisa proprio col primo.
L’intreccio di sentimenti, falsità e conflitti è forte ed in grado di reggere la rappresentazione assieme alla buona prova di tutto il cast. L’amore e la felicità che Maggie insegue ostinatamente sono impossibili anche a causa dell’aridità e delle falsità della famiglia di Brick, che vive per i soldi e il successo. La prima parte dello spettacolo è tutta della Puccini in grande spolvero, una Maggie acida, insofferente, velenosa, dalla voce graffiata e graffiante come una gatta. Prova a far ingelosire vanamente Brick, ma lui desidererebbe addirittura che lei avesse un amante e si anima solo quando si parla di Skipper. La seconda parte vede al centro il confronto tra Brick e suo padre. “Ma che festa meravigliosa stasera!”, esclama quest’ultimo, quando in realtà tutti in famiglia si odiano, mentono, sono falsi e si combattono a suon di sarcasmi amari. Grande interpretazione, in questa parte centrale, di Musio e di Marchioni, il quale dialoga splendidamente anche su una gamba sola (Brick ha un piede rotto e ingessato per l’arco di tutta la storia). “La vita ci rende bugiardi. Io sono così poco vivo da dire la verità”. E gli scappa del cancro del padre. La risoluzione finale è l’annuncio di ciò alla madre (Franca Penone) e la bugia di una Maggie che in realtà non è incinta ma arriva addirittura a strappare a Brick un “ti ammiro” e a farsi spalleggiare contro le invettive del fratello di lui e della cognata. La scena di Dario Gessati ci porta nell’unico interno della camera da letto di Maggie e Brick, con un muro che in determinati frangenti si apre e lascia intravedere un po’ di vegetazione. La regia di Cirillo si mantiene efficacemente asciutta e conservatrice. Uno spettacolo ben orchestrato, con ottime caratterizzazioni forti del testo di cui sopra, che per due ore rapisce lo spettatore con interesse e divertimento.
Cristiano Esposito
www.teatroespettacolo.org e www-teatropassione.blogspot.it – 10.04.2015


LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA

Sai come mi sento? Come una gatta sul tetto che scotta”. Chi non ricorda la celebre battuta di Elizabeth Taylor? Nel 1958 l’attrice fu protagonista insieme a Paul Newman de “La gatta sul tetto che scotta”, tratto dall’omonimo dramma teatrale scritto quattro anni prima dal drammaturgo statunitense Tennessee Williams. La Taylor interpretava Margaret, ovvero “Maggie la Gatta”, personaggio tra i più interessanti della drammaturgia di Williams. Quella battuta storica è pronunciata al teatro Diana di Napoli da una graffiante Vittoria Puccini nell’allestimento firmato da Arturo Cirillo. L’attore e regista stabiese sceglie di tornare a Williams dopo l’allestimento de “Lo zoo di vetro” proponendoci una versione lucida e raffinata.
La storia, che valse a Williams il secondo premio Pulitzer (il primo l’aveva vinto con “Un tram chiamato desiderio” anch’esso diventato un film), propone allo spettatore una molteplicità di temi: l’omosessualità, le ipocrisie e bugie all’interno del nucleo familiare che si sfalda scena dopo scena.
Vittoria Puccini (che applaudiamo al suo debutto teatrale) e Vinicio Marchioni sono Margaret e Brick, una coppia infelice, il loro matrimonio non ha generato figli e i due non dormono più insieme. Anzi Brick, ex sportivo, è sprofondato nell’incubo dell’alcol dopo la morte dell’amico e compagno di squadra Skipper, morto suicida. Ma tra Brick e Skipper vi era qualcosa di più di un’amicizia e alla “gatta” Maggie la loro intimità non era sfuggita. Dal canto suo Maggie ha conosciuto la povertà e ha guadagnato con il matrimonio un prestigio sociale a cui non vuole rinunciare, nonostante il matrimonio infelice e l’assenza di figli è sinceramente innamorata di un uomo che non la vuole più. Da quel tetto che scotta lei non vuole cadere.
In occasione di una festa di famiglia per festeggiare il compleanno del padre di Brick la coppia infelice si confronta con un’altra coppia, all’apparenza soddisfatta ma in realtà solo più meschina: Gooper, fratello di Brick, e la moglie Mae. I due sono intenti a strappare l’eredità del padre a sua insaputa malato di tumore. I personaggi si muovono in un interno colorato, dalle quinte i suoni della festa, grida di bambini ma anche rumori sinistri, un interno che sembra essere una trappola come la vita di coppia dei protagonisti. Tra i personaggi veri e propri duelli verbali in un crescendo di rivelazioni che catturano l’attenzione del pubblico fino al clou drammaturgico: il confronto tra Brick e suo padre.
Cirillo ci presenta una famiglia frantumata da dissidi e ipocrisie, senza allontanarsi dalla cifra stilistica di Williams e donandoci una coppia di attori convincenti. La Puccini è una gatta strisciante e nervosa, mentre Marchioni è un Brick intenso e sofferente, con una frattura fisica ed interiore. Lunghi applausi meritati.
Francesca Bianco
www.teatrionline.com – 13.04.2015