La notte poco prima della foresta – musica

La nuit juste avant les forêts” di Koltès si configura come un urlo ininterrotto per voce sola. Una sequenza monofonica di incontenibile rabbia, tanto reiterata da divenire meccanicamente un loop. Quasi il suono stridente di un cacofonico quanto inarrestabile jukebox antropomorfo che vomita ossessioni, aggressioni, ambiguità. A tratti anche una disperata religiosità profana rivolta, o evocata, a figure devianti: prostitute impazzite, teppisti metropolitani, incontri notturni nella penombra di un ponte, amori impossibili pregnanti di ambiguità. Tutto in una cornice di nomadismo senza un attimo di respiro, nell’angoscia di una vita non sedentaria vissuta con dolorosa precarietà.
Questi, per me, i principali temi presenti in questo lavoro insieme ad uno specifico artificio formale ed espressivo: l’assenza del punto tra i segni d’interpunzione, un continuum verbale privo d’interruzioni che si concede solo brevi attimi di respiro, quasi fisiologici.
Una scrittura fatta tutta di solo lettere minuscole, una democrazia utopica della semiografia priva di gerarchie. Ma anche una concezione modulare che fa sì di poter riprendere il testo da un qualsiasi punto. Come una musica senza cadenze, un moto perpetuo di parole, un pedale di sentimenti ad libitum.
Non so se Koltès immaginasse anche una precisa musica di scena quando scriveva questo lavoro. Le indicazioni che emergono dal testo contengono una pluralità di matrici sonore da quelle etniche (un arabo che canta una tiritera, il sognare il canto segreto degli arabi) alla musica di strada; da quella colta, qui rievocata in modo dispregiativo («arie d’opera o stronzate del genere»!) fino alla babele sonora della metropoli che l’autore non indugia a definirla casino. Insomma più che una specifica musica, il testo suggerisce un sostrato sonoro che fa pensare ad una sorta di zapping multirazziale. Ma sempre per una sola voce. Una voce, o meglio un canto sedativo, che nasconde uno straordinario potere magico-terapeutico: «[…] se invece di sputar fuori tutto quanto (perché lei non sospettava nulla di me) me l’avesse detto cantando? Avrebbe potuto cantarmi qualsiasi cosa, io non avrei potuto fare più nulla, sarei stato d’accordo su tutto».
Da queste osservazioni preliminari ho iniziato a lavorare con Nora e Giulio partendo da due principali interrogativi: quale funzione conferire alla musica per questa messinscena e che tipo di linguaggio adottare.
Per primo abbiamo scelto, diversamente dalla struttura ininterrotta del testo, di utilizzare un intervento sonoro che, invece, scandisse i principali cambi di umore del copione. Poi, abbiamo selezionato le matrici sonore più congeniali: etniche, jazzistiche ed alcune poetiche musicali del Novecento. In realtà si è scelto di adottare un ampio e diversificato tessuto sonoro in grado di suggerire quel plurilinguismo caratterizzante la nostra cultura contemporanea. E qui il lavoro compositivo si è orientato tanto sulla scrittura musicale artigianale (Desert midnight un tema jazzistico omaggio a Monk e Mama, una solitaria e notturna melodia per sax soprano),quanto sull’invenzione di diversi paesaggi sonori. Degli ambienti timbricamente caratterizzati ma non naturalistici: in tal senso Vento mix, un paesaggio realizzato utilizzando in sovrapposizione il soffio di numerose ocarine, può restituire la dimensione di un peregrinare notturno e disperato sotto la pioggia, senza raddoppiare il contenuto del testo verbale. Altri ambienti sonori contengono invece al loro interno delle citazioni minime estrapolate da alcune opere contemporanee.
In coda, un lungo brano per accumuli che intreccia gran parte dei materiali utilizzati.
Pasquale Scialò