La notte poco prima della foresta – note di regia

Lessi per la prima volta il testo di Koltès circa dieci anni fa e me ne innamorai immediatamente. L’impatto fu folgorante ed assolutamente emozionale: turbamento, commozione, senso di smarrimento e di perdita che pochi testi mi hanno suscitato. E per questo, nel metterlo in scena, anche se alla prima lettura ne sono seguite tante altre, ho preferito seguire una strada “emozionale” più che “analitica”, la strada delle suggestioni, delle sensazioni, degli echi, dei ricordi…e così ho lasciato che dal torrente di parole e immagini del mondo di Koltès, che mi aveva invasa alla prima lettura come un fiume in piena, emergessero piano piano alcuni elementi e si facessero largo tra gli altri: gli specchi, un ponte solitario, un lampione, il vento, la luce, la pioggia…Come degli squarci, dei bagliori nella città notturna, visti attraverso la lente delirante e poetica dello Straniero, dell’emarginato, della vittima che grida la sua rabbia contro i suoi carnefici.
Ma “La notte poco prima della foresta“ è anche una lunga, ininterrotta dichiarazione d’amore, urlata e trattenuta, spudorata e reticente, ma senza mai prendere fiato, ad un giovane “compagno di sventura”, specie di miraggio nella notte, forse più desiderio che realtà, desiderio di contatto fisico e di calore ma anche bisogno ancestrale di riconoscersi finalmente con un proprio simile, àncora di salvezza in un mondo violento ed estraneo.
La presenza del compagno, perciò, sarà l’unico elemento “concreto”, ma non troppo, sul palcoscenico, referente muto a cui tutti i racconti, le digressioni, le invettive, i ricordi dello straniero riconducono. E poi gli specchi, gli odiati specchi che lo circondano, in cui l’immagine dello straniero si sdoppia, e ci restituisce la solitudine dell’uomo accerchiato da altri individui che lo spiano, soli e farneticanti come lui, ma anche l’idea della realtà che si moltiplica e si fraziona, si frammenta e si ripete ossessivamente, come il suo racconto, come la molteplicità delle esperienze e dei ricordi, in un disordine temporale molto più vicino al sogno che alla realtà.
Per il resto il palcoscenico sarà uno spazio astratto, bistrot notturno o strada vuota, a cui la luce e certe sonorità daranno un valore evocativo, in cui possano convivere tutte le situazioni che scaturiscono dal flusso del racconto, in un presente drammatizzato della memoria, nel tentativo di restituire la forza e la varietà del tessuto verbale di Koltès, che è simbolico e tangibile al tempo stesso, fisico e metaforico, carnale e poetico, urlato e sussurrato.
E su tutto questo universo, la pioggia, come rumore e come materia, elemento costante e unificante del testo, che bagna tutto e ci restituisce quel freddo, quel disagio, quell’assenza di riparo(per il corpo ma anche per il cuore e per la mente) ma anche simbolo di moto perpetuo, flusso liquido che trascina con sé tutto il vissuto dell’esperienza, del ricordo, del dolore, della rabbia, della nostalgia…
Nora Venturini