L’Isola di Sancho – note di regia

Una favola non edificante
A concludere la prefazione di “Uscita d’emergenza”, la commedia che rivelò Manlio Santanelli, avevo scritto che si ritrovava “in quest’opera di rara poesia, il sapore amaro della memoria. E della disperazione. E della risata che illumina il mondo”.
Nella sua seconda commedia, ho assaporato il sapore agro dell’utopia.
Al Centro di Drammaturgia di Fiesole si raccoglievano proposte sul vasto tema dell’utopia: con Manlio indicammo una nostra ipotesi di lavoro, di taglio ironico, che raccontasse in una favola comica, derivata alla lontana dalla divagazione di Cervantes, come sia una beffa l’utopico comando concesso al personaggio popolare.
Così nacque “L’isola di Sancho“, dal nome imposto al pescatore napoletano Santo nel momento in cui venne nominato governatore per burla. Alla nuova commedia mi legano i miei anni di ricerca sull’irruzione dei linguaggi popolari nel teatro nazionale fino a costituirne la spina dorsale; mi mancava l’esperienza della cultura teatrale napoletana, grazie a Santanelli quest’incontro ora è avvenuto.
L’autore racconta una favola maledettamente mediterranea, intessuta dei tipici conflitti fra plebe e signori dell’area meridionale, con l’archetipo della famigliola popolare tenuta assieme da rassegnazione e superstizione, e l’altro archetipo della famiglia potente accidiosa e disgregata e la finale catastrofe del poveraccio votato all’archetipo esilio-emigrazione. Ma all’interno di questa programmatica tipicità, Santanelli ha affrontato anche questa volta dei problemi che mi pare riguardino la cultura europea.
Le sue frecce intelligenti colpiscono gli inguaribili ottimisti dell’utopia del comando popolare e del benessere universale. Nella favola emerge, al disopra dell’ovvio conflitto di classe, la descrizione della mancanza di solidarietà tra gli oppressi: nella disgregazione dell’antico potere spicca la novità del popolano che punta alla conquista del potere personale all’interno del giuoco dei potenti, usando le loro stesse regole, e vince perché giuoca meglio al solito giuoco. Questa è la morale della nostra favola, e proprio la sua sgradevolezza, per dirla shawianamente, mi sembra che ne elevi il divertimento e ne garantisca l’utilità.
Gianfranco De Bosio