Oreste – note di regia

L’Elettra si conclude con una separazione dei due fratelli: abbandonano il luogo che è stato teatro di un omicidio. La morte della madre Clitennestra e la soluzione portata dai Dioscuri prevedono il matrimonio di Elettra con Pilade e l’esilio di Oreste.
L’Oreste scritto cinque anni dopo non tiene più conto di questa conclusione. Parte invece come se l’intervento dei Dioscuri non fosse avvenuto. Oreste, inseguito dalle Erinni, preda di crisi depressive e di angosce tremende per l’enormità dell’assassinio, è addormentato su un misero carro che gli fa da giaciglio davanti alla reggia. Menelao ed Elena sono arrivati ad Argo. Elettra, in un’inedita prospettiva quasi materna, sta accudendo Oreste. Non è più l’Elettra del dramma precedente. Non è la sposa di un contadino, è meno certa, meno determinata, attende soprattutto il verdetto della città, la condanna a morte per lapidazione dei due fratelli per matricidio, e affida le sue speranze di salvezza in Menelao che, ricongiunto con Ermione, la figlia, possa salvarli.
Elena chiede aiuto ad Elettra ed invia, su suo consiglio, Ermione a sacrificare sulla tomba di Clitennestra. Elettra è durissima con lei. Il coro partecipa del dolore di Elettra. Oreste si risveglia dal suo sonno e non sa dove si trova. Il delirio lo coglie, poi la lucidità: “Elettra, smetti di tormentarti per il mio delitto: tu eri d’accordo, ma il sangue di nostra madre l’ho versato soltanto io e ora accuso Apollo che mi ha spinto a quest’orrore; ma poi solo a parole mi conforta e non nei fatti”.
È una dimensione completamente diversa da quella dell’Elettra. La reggia è lo sfondo. Un solido sfondo. Un solido sfondo. I personaggi si presentano sulla scena che è lo spiazzo davanti alla reggia dove solo giace Oreste. E fino al resoconto della città riportata dal messo si susseguono Elena, Menelao, Tindareo, Pilade, ma non c’è da concatenarsi di fatti. L’oratoria dilaga in ampi spazi fino al momento in cui Oreste con Pilade decide di recarsi all’assemblea per cercare di difendersi.
L’assemblea è descritta dal messaggero come una rissa di posizioni discordanti spesso opportunistiche. Menelao, che spera di impadronirsi del regno di Argo, non è neppure presente. “Le istituzioni non sono al di sopra dei contendenti. Non si discute di grandi principi etici, non si propone un codice di leggi più alte. Il discorso verte sull’ordine pubblico e privato. La fallibilità sembra il carattere fondamentale nel comportamento degli uomini, i quali dovrebbero gestire bene la loro convivenza, ma invece si rivelano incapaci di retto autogoverno”.
Da questo punto la tragedia cambia direzione. Ritornano le decisioni. Oreste, Elettra e Pilade, superato il primo sconforto sono ora tre lucidi congiurati. C’è una precisa strategia sotto le loro azioni: un pensiero. La tragedia riparte, si inanellano i colpi di scena, le decisioni ritrovano spazio, fino alla catastrofe finale.
È Apollo con Elena (il regista con la primadonna di tutta la saga?) che riporta l’ordine di una trama sempre più aggrovigliata, compresa la variante del Frigio, vero personaggio da commedia.
Oreste è ritornato padrone della situazione: un Oreste cresciuto dal peso delle azioni, dalla colpa metabolizzata e assunta, e infatti Pilade si azzittisce, ma il male non è stato vinto, tutto è stato inutile. La guerra di Troia è stata scatenata perché un gran numero di imbecilli morisse, Elena non è morta ma è assunta in cielo, Pilade sposerà Elettra e Oreste Ermione, la cugina che voleva ammazzare: si ricompone un ordine disordinato.
È insomma un irreparabile caos, una sceneggiatura alla “Truman Show”. Spiati da un regista occulto, gli uomini agiscono credendo di essere nel giusto, ma tutto è insensato. E dalla fine possiamo ricominciare: Euripide, nostro contemporaneo. “La presunta ragione dell’uomo è in realtà una follia?”
Piero Maccarinelli