Pulcinella – note dell’autore

Il mio primo ricordo teatrale è saldamente ancorato alla maschera di Pulcinella: sono nel Politeama di Napoli dove si esibisce Salvatore De Muto, l’ultimo rappresentante – questo lo avrei appreso molto tardi – di una ideale famiglia di Pulcinelli che, attraverso i mitici nomi di Petito, Fracanzani e Calcese, risale il corso del tempo fino alla seconda metà del Cinquecento. Di quella farsa, o commedia che fosse, ora saprei dire ben poco. Ma una scena fra tutte è rimasta impigliata nelle maglie della mia memoria. Pulcinella serve il pranzo al padrone, e da quel pasticcione che è ha dimenticato la saliera. Il padrone, accigliato, lo redarguisce severamente: “Pulcinella, sale in tavola!” E Pulcinella con un guizzo monta in piedi sulla mensa apparecchiata, fra gli anatemi del padrone e l’ovazione del pubblico.
Ebbene, se ho accettato con entusiasmo la proposta fattami da Maurizio Scaparro di scrivere un testo teatrale ispirato a preziosi materiali lasciati da Roberto Rossellini, lo devo anche a quel lontano ricordo, che mi permette di considerare Pulcinella come una vecchia, vecchissima conoscenza.
Ma, in principio, più che di una proposta per me si è trattato di una vera e propria sfida. Come potevo da napoletano, concedermi il lusso di ignorare la realtà attuale della mia città con tutto il dolente carico di problemi che essa si porta dietro, e vivere in maniera incolpevole la fuga nel passato che l’argomento dello spettacolo pure imponeva?
Si dà al caso, però, che anche il passato remoto di Napoli non sia più confortante del suo presente.
Si, pare proprio di poter escludere per questa bersagliata città la cosiddetta età dell’oro. Su tale giudizio io e Scaparro ci siamo trovati d’accordo fin dal primo istante.
E allora quella fuga nel passato ha cambiato decisamente segno e si è andata configurando sempre più chiaramente come un’occasione propizia per meditare, senza per questo perdere di vista il divertimento di senso lato – sopra uno dei tanti complessi periodi della storia di Napoli; una storia che sembra ripetersi secondo moduli ossessivi, come i gesti reiterati all’infinito e senza luce di ragione con cui si manifestano certi casi incurabili di follia.
Ne sortisce che le vicende comicotragiche di Pulcinella – o meglio di quel commediante del Seicento che, per recitare più degnamente la parte di Pulcinella, sceglie di espatriare, ma poi si avvede che non esiste luogo degno di quella recita se non nella sua mente – possono agevolmente venire intese come un rimando, neanche troppo nascosto, ad una condizione umana ahimé sempre uguale, e forse non necessariamente circoscritta a Napoli e dintorni, e… E per pudore mi fermo qui, un istante prima di cadere nella tentazione di far uso della parola “metafora”.
Manlio Santanelli