Servo per due – recensioni

«Servo per due» in tre ore di divertimento

Pippo-Favino sceglie di lavorare per due padroni ma scopre che sono tipi poco raccomandabili e scatena una serie di equivoci
Preparatevi a ridere da avere i crampi allo stomaco, quando andate al Nuovo a vedere Servo per due di Richard Bean nell’allestimento di Pierfrancesco Favino (è in scena fino a domenica per il Grande Teatro). E vi basti: questo è uno di quegli spettacoli che non si possono raccontare, pena rovinare il divertimento di chi lo deve ancora vedere, un po’ come svelare il colpevole di un giallo. Ce n’è per tutti i gusti, dentro questa rivisitazione del classico goldoniano Arlecchino servitore di due padroni, forse anche troppo, ma sicuramente un troppo irresistibile e divertente come non avremmo pensato mai di fronte a tre ore di durata. Invece i 180 minuti scorrono via che è un piacere, tra gag, sketch, doppi sensi, scambi di persona, musica (dal vivo) e balli, presi dalla commedia dell’arte, dal teatro di varietà e dalla stand up comedy inglese (che ama interagire col pubblico). Anche se dopo l’intervallo si procede ridendo ancora, ma già un po’ sazi. La vicenda è ambientata nella Rimini degli anni Trenta (Bean invece aveva scelto la Brighton del 1963), e Arlecchino si chiama Pippo. Ha la stessa fame e tasche vuote del suo modello originale, e quando trova due lavori li prende entrambi, salvo poi accorgersi che i due padroni si conoscono e non sono troppo raccomandabili, e quindi si deve ingegnare con sotterfugi e bugie. E non sarà l’unico. Il che innesca una serie interminabile di equivoci, tra porte che sbattono come nel vaudeville, e gag le più varie che neanche a «Oggi le comiche». Il bravissimo Favino, qui regista (con Paolo Sassanelli), autore della versione italiana (con Sassanelli, Marit Nissen e Simonetta Solder) e protagonista nei panni di Pippo, non si risparmia. Guida un gruppo numeroso (tra i rari teatranti non superstiziosi, sono in diciassette) e ben assortito, che recita, canta, balla e suona. E pure lui salta e corre tutto il tempo, con le movenze della maschera tutta inchini e saltelli, e con una verve talmente coinvolgente da far perdonare i birignao, certamente voluti, ovvero un tripudio di accenti dialettali e lazzi che vanno a sostituire i «tipi» e le maschere della commedia dell’arte, e talvolta certa confusione in scena. Non è un paese per puristi di Goldoni, questa Rimini felliniana dove ritroviamo la Gradisca e la nave Rex. Anche se il campionario umano dell’autore veneziano è talmente universale che regge dai tempi di Plauto a quelli attuali di Bean. Arlecchino/Zanni (e le sue famose versioni teatrali) qui resta in sottofondo, un modello appunto, cui far riferimento senza però esserne ossessionato: ed è proprio questo che fa funzionare il meccanismo perfetto della comicità di Favino & C. Divertente perfino la scenografia da cartone animato di Luigi Ferrigno. Da segnalare il sempre bravo Ugo Dighero (l’esilarante cameriere Alfredo), Valentina Valsania (Zaira), Thomas Trabacchi (Ludovico), Claudio Castrogiovanni (Livio) e i quattro dell’orchestra Musica da Ripostiglio. Ma meriterebbero tutti la citazione, anche per il coraggio – in tempi di crisi – di questa impresa teatrale autoprodotta Gli Ipocriti/Danny Rose. Applausi e standing ovation.
Daniela Bruna Adami, L’Arena – 13 febbraio 2014


“Servo per due”. Una festa per gli occhi alla Corte

“Servo per due” di Richerd Bean, commedia liberamente ispirata a “Il servitore di due padroni” di Carlo Goldoni, è approdata l’altra sera al Teatro della Corte dopo un trionfale tournée. Lo spettacolo inizia con un’esibizione musicale di quattro eccellenti musicisti, che cantano e suonano davanti a microfoni sui quali è scritto Eiar, e creano subito l’atmosfera degli anni Trenta. La complicata vicenda comincia infatti nel 1936 a Rimini in un contesto scenico connotato dallo stile liberty e da un inequivocabile ritratto di Mussolini alla parete. Protagonista assoluto è Pierfrancesco Favino, che reincarna Arlecchino col nome di Pippo, ma che ha anche tradotto il testo dall’inglese, lo ha adattato e, insieme con Paolo Sassanelli, ne ha curato la regia. Pippo è senza soldi e affamato: deve trovare un lavoro e ne trova addirittura due: dovrà sdoppiarsi, come suggerisce il titolo, fra due padroni. Uno dei padroni è Rocco, un imbroglione che è giunto a Rimini per concludere un affare con Bartolo, padre della sue fidanzata Clarice. L’altro imbroglione è Ludovico. Inutile seguire l’intreccio, che miscela travestimenti e sorprendenti cambi di scena. È scontato il lieto fine, ma quello che conta è lo svilupparsi della vicenda, che s’innesta sulla capacità di Favino di coinvolgere il pubblico scendendo dalla scaletta che lo porta in platea. Le trovate comiche si susseguono così come le risate del pubblico che applaude senza risparmio, travolto dall’atmosfera eccitante dello spettacolo, dalla bravura e dalla simpatia di Favino, che salta, corre, sgambetta, sudando le classiche sette camicie. Esilarante l’intervanto comico di Ugo Dighero nel ruolo di un vecchio servitore dalle mani tremolanti e dalle gambe malferme. Il formidabile quartetto di musicisti crea una colonna sonora ricca di melodie d’epoca, senza dimenticare un omaggio a Fellini, al Trio Lescano, a Wanda Osiris. Una valanga di applausi con ovazioni ha concluso questo affollato e delizioso spettacolo, che offre tre ore di assoluto divertimento e una festa per gli occhi con le scene di Luigi Ferrigno e i costumi di Alessandro Lai.
Clara Rubbi, Corriere Marcantile – 6 febbraio 2014


Favino, un “servitore” scatenato e da applausi

“Il Servitore di due padroni” fu scritto da Goldoni nel 1745 come canovaccio, sulla traccia dello scenario francese “Arlequin valet de deux maitres”, mentre la stesura definitiva avvenne ben otto anni dopo. L’edizione di Strehler per il Piccolo lo rese teatro assoluto, spettacolo universale. Ne discende “Servo per due”, alla Corte fino a domenica, ove l’adattamento di Richard Bean e la versione italiana a quattro mani guidata da Pierfrancesco Favino rinnovano i tre passaggi della stesura originaria. Resta, in questa rivisitazione, la prima idea goldoniana di un testo-canovaccio dove si recita a soggetto e resta il doppio intrigo nuziale, dove una fanciulla si traveste da uomo, un servitore si mette al servizio di due signori e, dopo molte traversie, servi di qua, padroni di là, compongono lietamente inganni e affanni. “Servo per due” per il resto è cosa diversa, non possiede, né prevede, l’alternanza di sequenze serie e comiche, le tensioni di un mondo nuovo, in una parola la “risonanza” goldoniana. È teatro che si ispira a Goldoni alla lontana, ma è teatro felice. La storia si svolge nel 1936, per metà è costituita da siparietti di musiche dal vivo scelte tra quelle più coinvolgenti dell’epoca. In scena ci sono tredici artisti scatenati sotto la regia brillante, accesa matematica nei tempi di Paolo Sassanelli e Pierfrancesco Favino, la sorpresa della serata. Non sono pochi gli attori di piccolo e grande schermo che si mettono in gioco in teatro, ma tutti tendono a continuare sul versante a loro abituale. Favino si è mosso invece su un registro comico accesissimo, scatenandosi senza risparmio nella tradizionale gestualità di Arlecchino e conducendo la sua ottima compagnia a un coinvolgimento continuo di pubblico. […] Gran prova di Favino, si è detto. Vanno poi citati i due genovesi, un Ugo Dighero che succede a se stesso in ruoli l’uno più saporito dell’altro ed una Valentina Valsania beffarda, scatenata, precisa nei movimenti come Smeraldina-Zaira e gran bel sostegno della serata. Insieme ad Armando Bruno, un padre dalla vocalità sempre perfetta, i quattro musicisti, Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli, Emanuele Pellegrini, e poi Stefano Pesce, Marina Remi, Chiara Tomarelli, Thomas Trabacchi, Pierluigi Cicchetti, meriterebbero tutti ben più di una citazione.
Margherita Rubino, Il Secolo XIX – 6 febbraio 2014


UN “SERVO PER DUE” DALLA FORZA ESPLOSIVA

Ci sono spettacoli che lasciano il segno, si esce da teatro e nonostante le ore di visione, si avrebbe voglia di tornare subito dentro per una nuova replica – sensazione non così facile da provare. “Servo per due” diretto da Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli è uno di questi.
Dopo la visione della pièce, rimane addosso un senso di allegria e immaginiamo che, di fronte a tanta energia, anche lo spettatore più introverso possa essere uscito canticchiando e, chissà, forse muovendo anche qualche passo di danza.
Cari lettori, per quanto ci proponiamo ogni volta di essere analitici (nel bene e nel male), non possiamo nascondervi il colpo di fulmine avuto con la visione di questa messa in scena.
Si potrebbe pensare che si tratti della logica di mercato di puntare a nomi famosi per riempire il teatro – e purtroppo, tanto più in tempi in cui la gente ci pensa più di una volta se spendere quei soldi, capita che l’ “esca” diventi l’artista celebre; è vero anche che, dietro al nome, può esserci il talento misto a studi e gavetta ed è questo uno dei casi. Favino si è diplomato, infatti, all’Accademia D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” nella stessa classe di Alessio Boni, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, artisti che hanno avuto come maestro Orazio Costa Giovangigli, al quale, ancora oggi, riconosco un’importanza fondamentale nel loro modo di essere attori. In questi interpreti, a cui potremmo aggiungere (per citarne alcuni) Roberto Herlitzka e Marcello Prayer, si riconosce la matrice comune del metodo mimico e di quell’incontro umano, ma al contempo, ognuno di loro ha iniziato a percorrere la propria strada trovando la personale dimensione, talvolta incrociandosi lungo il percorso (basti pensare a “La meglio gioventù” di M. T. Giordana). Anche per Paolo Sassanelli, co-regista di “Servo per due”, il principio è stato il teatro con Vito Signorile, Nino Manfredi, Pierpaolo Sepe e Marcello Cotugno ed è importante che attori come loro, diventati famosi con la televisione e il cinema, possano farsi veicolo di attrazione per il grande pubblico, tanto più quando dietro c’è qualità, elemento che accomuna l’intero cast artistico – costituito da alcuni attori del REP/gruppo Danny Rose1 – e tecnico (sarebbe difficile citarli tutti e ce ne scusiamo).
Soprattutto in Italia siamo abituati all’Arlecchino di Strehler, che innegabilmente ha segnato la storia del teatro a livello nazionale e mondiale, per cui coloro che sono affezionati a quella versione, vedendo “Servo per due” potrebbero avere una reazione “conservatrice”, ma ci auguriamo che possano essere aperti nel farsi coinvolgere e travolgere dalla fantasmagoria visiva e sonora che accadrà sul palco – e non solo.
Riteniamo che la decisione di rifarsi al “One man, two guvnors” di Richard Bean (2011), adattamento de “Il servitore di due padroni” di Goldoni (1743) sia stata vincente nell’ottica di creare una giusta distanza col testo originario e con la tradizione teatrale precedente. Ci preme, però, chiarire che ciò non significa dimenticarsi di Strehler, ma farne memoria, senza che il maestro di regia diventi un fantasma che incombe su tutte le rappresentazioni successive.
Così, se l’autore inglese aveva ambientato il tutto a Brighton negli Anni ’60, Favino, Sassanelli, Nissen e Solder optano per la Rimini degli Anni ’30 ed è questa chiave a permettere un perfetto mix tra farsa, commedia, varietà, rivista e macchietta a cui contribuiscono la scenografia (Luigi Ferrigno), i costumi (Alessandro Lai), le musiche (L’Orchestrina Musica da Ripostiglio), le luci (Cesare Accetta) e le coreografie (Fabrizio Angelini). L’unico nome che resta dei personaggi originari della commedia settecentesca è quello di Clarice (1° cast: Eleonora Russo, 2° cast: Marina Remi), l’Arlecchino (passato alla storia per le interpretazioni di Marcello Moretti, prima, e di Ferruccio Soleri, dopo) diventa in “Servo per due” Pippo (un poliedrico Favino) – e altro ancora; ma la struttura narrativa e il sistema dei personaggi restano quelli. Pippo è in cerca di un impiego per mettere a tacere la fame ed è per questo che diventa servitore di due padroni: Rocco (1° cast: Fabrizia Sacchi, 2° cast: Chiara Tomarelli) e Ludovico (1° cast: Pietro Ragusa, 2° cast: Thomas Trabacchi). I vari intrecci d’amore, di equivoci e chi più ne ha più ne metta, non vogliamo svelarveli; preferiamo lasciarvi la possibilità di scoprire ciò che, forse, già sapete, presentato in una veste più moderna. L’Arlecchino strehleriano aveva reso il testo goldoniano un fatto teatrale, ora noi non vogliamo fare paragoni, ma invitarvi a godere di “Servo per due” come un altro fatto teatrale, uno spettacolo a tutto tondo che guarda alla Commedia dell’Arte introiettandola. I frutti dei diversi seminari svolti dalla compagnia (Leris Colombaioni: clowneria, Massimiliano Dezi: acrobatica, Fabio Mangolini: maschera, Riccardo Romano: canto) si raccolgono sul palco; colpisce, infatti, la versatilità degli interpreti che si mettono in gioco e, al contempo, giocano tra di loro e col pubblico. La regia del duo Favino-Sassanelli cerca di assecondare l’istrionismo del singolo attore per creare un gruppo compatto e di alto livello. Nonostante Favino attiri e coinvolga con la sua prossemica e vulcanicità, si avverte il senso del gruppo. Indossando le maschere durante il laboratorio, gli attori hanno capito ancor più come far agire il proprio corpo nello spazio scenico, in relazione all’altro e al pubblico e questo tipo di studio arriva allo spettatore. «Tolta la maschera, rimane l’indole» afferma Favino.
«[…] Così come la realtà è trasformazione, tipica dell’attività del nostro mestiere è proprio l’attitudine a trasformarsi, e abbiamo detto […] che questa attitudine a trasformarsi noi l’abbiamo purché ce ne accorgiamo e siamo qui per mostrarci e ritrovare il gusto di queste trasformazioni che, opportunamente approfondite, ci educano alla ricchezza della nostra personale trasformazione, che è tutto quello che si chiede all’attore; questo trasformarsi è legato ai personaggi […], ma si realizza all’occhio del pubblico, si realizza in varietà, in ricchezza di movimenti e, soprattutto per gli attori, in dominio modulato della nostra voce, e tutto questo è sostenuto e regolato da questa nostra innata capacità di essere la forma che vogliamo, nel vero spirito di queste trasformazioni»3. Questo è uno dei tanti insegnamenti impartiti da Costa e immaginiamo che sia custodito in ognuno dei suoi allievi e magari, a loro volta, lo trasmettono. Senza maschere in scena, diventa ancora più potente l’arma del gioco facciale e tutti si sbizzarriscono con la propria tastiera espressiva. Un forte supporto arriva dall’Orchestrina Musica da Ripostiglio4, pronta ad accompagnare musicalmente gli attori (vedi gli intermezzi con “Mamma mi ci vuol un fidanzato” e “Sentimental”) e a farsi notare ancora a sipario chiuso mentre accoglie il pubblico in arrivo. In un panorama teatrale in cui non è facile vedere uno spettacolo con tanti attori (a meno che non sia sostenuto da un Teatro Stabile), va riconosciuto lo sforzo messo in campo dalla Compagnia Gli Ipocriti e da REP/gruppo Danny Rose ed è lo stesso Paolo Sassanelli a evidenziare come tutto sia nato da un incontro sulla stessa lunghezza d’onda tra il gruppo e il produttore Marco Balsamo. «Vogliamo un teatro che consideri lo spettatore parte del processo creativo e che non lo escluda con scelte elitarie e intellettualistiche. In breve, il nostro vuole essere un teatro popolare»: questa la dichiarazione di intenti del gruppo Danny Rose. Dopo aver contagiato Sergio Leone per “Per un pugno di dollari”, la figura di Arlecchino servitore di due padroni continua a incuriosire i drammaturghi e gli artisti contemporanei e questa messa in scena è la riprova di come un classico possa rinnovarsi ancora oggi. La maschera dalle origini mantovane rivive in Pippo, nel cameriere Alfredo (uno straordinario Ugo Dighero che richiama la slapstick comedy) e in alcuni tratti dei diversi personaggi. In “Servo per due” vediamo il teatro di movimento e l’attrazione erotica apportata dal personaggio femminile5 (vedi Zaira interpretata nel primo cast da Anna Ferzetti, nel secondo da Valentina Valsania) mettersi a servizio di caratteri, accenti, modi di fare che appartengono a una comicità contemporanea che sa svelare le nostre maschere.
Maria Lucia Tangorra, Teatroespettacolo.org


Pierfrancesco Favino, l’arte di fare commedia

Un moderno Arlecchino, proposto tra echi felliniani di un’Italia ancora non in guerra, regala al pubblico del Massimo di Cagliari un pieno di risate e la consapevolezza di aver visto un buon teatro, bravissimi artisti e un eccezionale Pierfrancesco Favino, tecnicamente più completo di quanto si potesse immaginare. È il piacere del tutto esaurito per la prima sarda, nella stagione di prosa del Cedac, di “Servo per due”, il testo che il drammaturgo inglese Richard Bean ha liberamente tratto da “Il servitore di due padroni” di Goldoni. Favino, nei panni di Pippo/Arlecchino prende la lode nella prova di rivisitazione della commedia dell’arte. Non solo per qualità interpretative ma anche per quell’equilibrio impostato nella co-regia firmata con Paolo Sassanelli che lo vede protagonista senza cedimenti all’invadenza in scena divisa funzionalmente con gli altri attori del Gruppo Danny Rose. Il cast, nel carosello colorato dei costumi del cagliaritano Alessandro Lai, si muovono a perfetto agio tra le variegate scene di Luigi Ferrigno di una Rimini anni Trenta. Qui si narra la vicenda di Pippo, impegnato a sbarcare il lunario, che si fa assumere contemporaneamente da Rocco, un delinquente del Nord Italia di passaggio per affari, e da Ludovico, un noto esponente della malavita. Pippo – maschera classica nel suo essere affamato, ingenuo e furbo al contempo – corre continuamente il rischio di svolgere male gli incarichi e tradirsi sul doppio lavoro con i due padroni che, a loro volta celano traffici e affari di cuore. In una giostra di equivoci e scambi di persone, si moltiplicano gag, ammiccamenti e battute. Toccate le vette delle situazioni esilaranti si arriva a sfiorare una tragedia e, finalmente, tutto si ricompone. Altissima l’attenzione ai dettagli della regia e il dettato del gioco di coinvolgimento diretto del pubblico nella finzione del teatro, con tutto lo spasso non preventivato. L’orchestra Musica da Ripostiglio (gli ottimi Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli ed Emanuele Pellegrini) regala una favolosa colonna sonora con canzoni d’epoca ma non disdegna le fughe in avanti nelle note accennate di Michael Jackson o Vangelis. Anche se nel secondo tempo qualche sforbiciata non avrebbe guastato, laddove non arricchiva ulteriormente il testo, lo spettacolo vince la sfida con lo spettatore della durata di oltre due ore e mezzo. Si deve dire grazie all’intera squadra degli interpreti, cantanti e ballerini: Bruno Armando, Gianluca Bazzoli, Haydée Borelli, Claudio Castrogiovanni, Pierluigi Cicchetti, Stefano Pesce, Marina Remi, Diego Ribon, Chiara Tomarelli, Thomas Trabacchi, Valentina Valsavia e Ugo Dighero, applauditissimo nel ruolo del cameriere Alfredo. “Servo per due” è in programma ancora oggi e domani.
Manuela Vacca, L’unione sarda – 25 gennaio 2014


Un Arlecchino nella Rimini degli anni Trenta

“Maramao”, “Ludovico sei dolce come un fico”, “Il sassolino nella scarpa”, noti motivetti che piacciono tanto accolgono al Massimo, suonati dal vivo, il pubblico da tutto esaurito per “Servo per due”, in scena per il Cedac con Pierfrancesco Favino e il Gruppo Danny Rose. Preparano l’atmosfera anni ’30 scelta dai registi e adattatori (lo stesso Favino e Paolo Sassanelli) per una messinscena goldoniana passata per l’adattamento dell’autore britannico Richard Bean e tornata all’italiano, aprendosi su un interno liberty – con tanto di foto del duce – nella Rimini del 1936. E se per lo stesso autore “Il servitore di due padroni” era una “commedia giocosa” senza gli intenti moralizzatori della sua celebre riforma, l’allestimento coglie, con due ore e mezza di ricco divertimento, in pieno l’occasione. Insieme a quella, pure prevista da Goldoni, di “dare al Mondo un nuovo, cogli antichi, spettacolo giocondo”. Ovvero di usare a regola d’arte quei meccanismi dell’intrigo prima plautini che goldoniani i fremiti improvvisativi della commedia dell’arte, e poi pescando liberamente dall’immaginario fumettistico al vasto bagaglio del Varietà. Tenendosi stretti alla trama goldoniana, al ritmo di battute brevi ed efficaci, al condimento degli “a parte” che segnalano pensieri e piani dei personaggi, e ai chiarimenti rivolti al pubblico dal protagonista – ogni situazione diventa giustificato motivo di gag, ricami comici, citazioni musicali, e libere variazioni. Dall’autore anglosassone si mette a copione il coinvolgimento degli spettatori, sia veri che finti. Così nella gag del baule per sollevare il quale lo straordinario, nei tempi comici e nella versatilità, Pippo di Favino (ovvero il servitore Truffaldino/Arlecchino dell’originale) chiede aiuto. Sia quando l’attore, dichiaratosi affamato, è “costretto” a spiegare ad un volenteroso che “come allo zoo non si dà da mangiare agli attori”. E nella scena clou del ristorante in cui Pippo si dimena tra due sale e due padroni – e dove Ugo Dighero interpreta un decrepito cameriere da ovazione. … l’Orchestrina da Ripostiglio, quartetto grossetano di teatrale musicalità, fa quasi uno spettacolo nello spettacolo. In scena, oltre il proscenio, e davanti al sipario che nasconde i cambi delle scenografie, firmate da Luigi Ferrigno in bello stile Varietà. Coinvolgendo in cori e coreografie (riuscitissimo il Pippo non lo sa con Trio Lescano e boys col fez e camicia nera) anche Favino e i 13 interpreti. Il brillante cast aggiunge inflessioni regionali – milanese toscano romagnolo e un po’ di sardo ad hoc, e caratteristiche d’altro tipo, dall’altisonante recitativo con dinamismo futurista, al femminismo d’epoca con previsioni ideali di cui però il pubblico conosce l’ingrato epilogo. Andando verso lo scioglimento lieto fra i malintesi creati dalla furberia ottusa di Pippo – fa credere morti i rispettivi padroni, ovvero i due innamorati che disperatamente vagano nella Rimini notturna – e che rilancia ogni volta con giochi di parole per cavarsi d’impaccio, ecco le sorprese di una Sentimental cantata da una Osiris en travestì e l’omaggio a Fellini con l’apparizione, enorme silhouette di luminarie, del Rex di Amarcord, tra applausi a scena aperta e quelli pieni e ripetuti del finale.
Roberta Sanna, La Nuova Sardegna – 25 gennaio 2014


Un Goldoni che sembra raccontato da Fellini e altri “ragazzi irresistibili”

Sarebbe bello immaginare che Richard Bean, l’autore di “One man, Two guvnors”, sia stretto parente di quel Mr. Bean che ci ha fatto conoscere la televisione (o sia proprio lui): l’idea di trapiantare a Brighton e negli effervescenti anni Sessanta “Il Servitore di due padroni” di Goldoni è infatti bizzarra e sorprendente come le gag del personaggio di Rowan Atkinson. Il Gruppo Danny Rose ha riportato in Italia questo pronipote di Arlecchino, l’ha ribattezzato Pippo e l’ha sbarcato in una Rimini di fine anni Trenta, con inevitabili amarcord felliniani, passaggio del Rex compreso. Goldoni come se fosse raccontato da Felllini reclama che la Commedia dell’Arte sia rivisitata con citazioni dell’avanspettacolo, che “Amarcord” si coniughi con “Luci del varietà”, che la trama originale scorra con l’incalzante accompagnamento delle canzoncine di allora, stupidine quanto irresistibili. Pinguini innamorati, gatti morti anche se pan e vin non li mancava, Ludovico che è dolce come un fico e Pippo Pippo che non lo sa ma magari vorrebbe avere mille lire al mese rivivono evocati da un favoloso quartetto, Musica da ripostiglio, che sembra arrivato dai nostri anni Trenta trasportato da una macchina del tempo. Grande merito della regia a quattro mani di Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli (anche autori dell’adattamento insieme a Merit Nissen e Simonetta Solder) è di aver pensato prima di tutto agli spettatori, coccolati da continue idee e stimolati dal ritmo incalzante impresso alla recitazione dei ventuno attori che si alternano nei tredici ruoli. Favino inventa un Arlecchino insieme tradizionale e inedito, divertente e divertito di dialogare con un pubblico veramente conquistato. Eccellenti tutti gli attori, da segnalare almeno l’Amerigo di Luciano Scarpa e il vetusto cameriere di Ugo Dighero. Spettacolo da non perdere.
Pietro Favari, Il Foglio – 03.01.2014


Favino fa il servo di Goldoni in stile varietà

All’apice del successo, dopo due blockbuster hollywoodiani come World war Z e Rush, Pierfrancesco Favino è tornato al teatro. E con la follia dell’artista lo fa non con un testo d’autore o un maestro della regia come con un po’ di megalomania potrebbe esigere, ma interpretando e dirigendo egli stesso, con Paolo Sassanelli, una banale commediuccia e un bellissimo progetto. Il progetto è quello di Danny Rose, una compagnia di circa 40 attori, alcuni popolari volti della tv, che poco più di un anno fa hanno deciso di unirsi per sovvertire le regole della realtà: fare squadra, produrre spettacoli, farsi venire delle idee nell’inerzia generale… Hanno organizzato seminari, rassegne e ora la prima vera produzione (con Gli Ipocriti e la collaborazione di Marco Balsamo) all’Ambra Jovinelli di Roma: Servo per due con 23 attori per due cast di tredici che si alternano nel corso delle repliche (a parte Favino e qualcun altro che ci sono sempre). Il testo è il Servitore di due padroni riscritto tre anni fa dall’inglese Richard Bean per il National Theatre di Londra dove ha riscosso successo – e per inciso sarebbe la terza versione della commedia goldoniana che circola da noi in stagione, oltre a quella di Strehler, autentica macchina del tempo, e a quello di Latella. Favino e Sassanelli portano la commedia di Goldoni-Bean a Rimini negli anni Trenta, tra i soliti sfottò al fascismo e atmosfere futuriste e protofelliniane (a un certo punto si vede la mitica nave di Amarcord) e la storia, il consueto equivoco di identità e verità, diventa quella di Pippo, per mangiare e fare l’amore, si vende a due padroni, Rachele travestita da Rocco per cercare il fidanzato Ludovico e lo stesso Ludovico, assassino in fuga. Ma se per Goldoni il teatro era parafrasi del mondo e i personaggi, uomini e donne che continuano ad amarsi, capirsi, tradirsi…Bean compie un’operazione più grossolana, con semplificazioni più o meno arbitrarie ma necessarie al puro divertimento e al teatro come diversione, piacere, socialità. Davanti alla scelta di far ridere, non conta il valore della storia ma la sua divertente insensatezza. Così quel che rende gustoso il lavoro di Servo per due, oltre a un buon artigianato teatrale e alla scena di Luigi Ferrigno che rievoca il teatro dei fondali, è l’indifferenza per i massimi sistemi, la sovrapposizione delle convenzioni, dal varietà al cabaret, l’allegria derisoria e, in generale,il piacere per il gioco del teatro che funziona almeno per un’ora e mezzo perché nel secondo tempo risulta più stanco e stiracchiato. Favino che fa Pippo (vestito che pare un alpino, chissà perché) recita in scena con la generosità che deve aver avuto decidendo di fare questo spettacolo: sta sul limite del macchiettismo, con un improbabile accento romagnol-bergamasco, ma ritrova il percorso di tracce di una maschera come Arlecchino, i suoi saltelli, i suoi gesti (le mani sulla cintura, il cappello tolto e messo…) e esibisce disinvoltura nel tu per tu (o finto “tu per tu”) col pubblico che culmina nella famosa scena del pranzo dei due padroni. Quello che conta, però, è la coralità. E si sente che c’è una verità di rapporti: Bruno Armando, Anna Ferzetti, Giampiero Judica, Diego Ribon, Eleonora Russo, Luciano Scarpa, Fabrizia Sacchi, Gianluca Bazzoli, con un plauso particolare a Pietro Ragusa, Roberto Zibetti, Ugo Dighero, Marit Nissen ma soprattutto ai musicisti Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli, Emanuele Pellegrini. Un terzo dello spettacolo lo fanno loro.
Anna Bandettini, la Repubblica – 29-12-2013


Arlecchino, clown anni ‘30

Chissà se Akiro Kurosawa nel 1962 aveva notizia del clamoroso successo di quello spettacolo di Giorgio Strehler che ancora gira il mondo, “Arlecchino servitore di due padroni”? in quell’anno il regista giapponese girò uno dei suoi film più belli, “La sfida del samurai”, una trascrizione nei suoi termini della storia di Goldoni. Ma pochi anni dopo un noto regista di cinema, Sergio Leone, con “Per un pugno di dollari” riportò il film giapponese in Italia, o meglio lo riportò in Italia adottando il linguaggio tutto americano del western, E di nuovo ieri, cioè oggi, prima in Inghilterra, poi da noi, Goldoni e Arlecchino tornano sotto mentite spoglie. In Inghilterra Richard Bean ha trasformato quella storia in una vicenda da slapstick: la stessa comicità, che nasce dalla velocità, dal cinema muto; e da noi Pierfrancesco Favino, con la compagnia Gli Ipocriti (è in scena all’Ambra Jovinelli), ha tradotto e riadattato in termini tutti italiani la storia di Bean. Ora Arlecchino si chiama Pippo, la sua storia è ambientata a Rimini negli anni Trenta, i suoi padroni sono sempre due, come dice il titolo della commedia “Servo per due”, e la quantità di impicci di equivoci e di gag è illimitata. In apertura di spettacolo vediamo che nella casa in cui l’azione principia spicca un ritratto di Mussolini; in chiusura appare niente meno che la sagoma di Rex, la nave che Fellini ha reso celebre nel mondo, un caposaldo dell’immaginario novecentesco. Ma nello spettacolo diretto da Favino e Paolo Sassanelli le sorprese sono altrettanto numerose. Il pubblico, almeno per tutto il primo tempo, ride in continuazione; le scenografie di Luigi Ferrigno sono vecchio stile, belle e confortevoli; la compattezza della compagnia e la bravura dei singoli interpreti e dei musicisti è a dir poco rara. Ciò che più colpisce, ed è quasi una sorpresa, è la prova di Favino, come attore, come clown, come giocoliere, come artista della voce e del corpo. Non da meno, dei ventiquattro attori che si alternano nelle repliche, sono Anna Ferzetti, Marit Nissen e, su tutti, Ugo Dighero, addirittura stupefacente, la sua presenza vale da sé l’intero spettacolo.
Franco Cordelli, Corriere della Sera – Edizione Roma – 27-12-2013


Che spettacolo con Favino

Tranquilli, stavolta niente morti sul lavoro né donne ammazzate dai mariti. Con tutto il rispetto per chi, giustamente, affronta a teatro certe tematiche scottanti. Bisogna farlo! E noi, come sapete, siamo sempre pronti a raccontarvi quelle storie troppo spesso dimenticate. Stavolta però vogliamo farvi rilassare e soprattutto farvi ridere. Sì ridere, e pure parecchio, ma in modo intelligente. Che fare? Semplice. Basta vedere quello che accade in Servo per due (One Man, Two Guvnors) di Richard Bean tratto da Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni, tradotto e adattato da Pierfrancesco Favino, Paolo Sassanelli, Marit Nissen, Simonetta Solder. Un adattamento di un adattamento, dunque, che ha come risultato uno spettacolo scoppiettante, stravagante, divertente e aggiungerei anche disomogeneo come può essere il mondo visto da un’altalena, che a secondo della velocità con la quale dondola ti fa vedere prima uno squarcio di cielo e poi un bel prato verde… Insomma una successione di “quadri” dove a farla da padrone – pur indossando i panni di un servo – è un bravissimo Pierfrancesco Favino, un moderno Arlecchino di nome Pippo, che in una Rimini (e non Venezia) degli anni Trenta (e non nel Settecento), affamato e senza soldi, comincia disperatamente a cercare un mestiere finché accetta di lavorare per due padroni: Rocco (Fabrizia Sacchi) e Lodovico (Pietro Ragusa), due malfattori. La commedia procede a colpi di battute, di sketch, canzoncine anni Trenta, musical, varietà, coinvolgimento diretto del pubblico… Insomma, è un bel minestrone questo Servo per due, che tuttavia si presenta come uno spettacolo molto diverso da ciò che si vede solitamente a teatro. Anche perché ci stiamo disabituando a vedere spettacoli con un gran numero di attori in scena. In questo caso i 21 attori del Gruppo Danny Rose si alternano nei 12 ruoli durante tutta la tournèe (in questi giorni, fino al 6 gennaio, lo spettacolo è al Teatro Ambra Jovinelli di Roma) ad esclusione di Pierfrancesco Favino, Bruno Armando, Gianluca Bazzoli, Ugo Dighero (uno strepitoso Alfredo), Diego Ribon. Per questo spettacolo, quindi, è stato pensato un doppio cast. Quello attualmente in scena lo sarà fino alla fine di dicembre, poi toccherà al secondo gruppo. Resta invariata l’orchestra che suona dal vivo: Musica da ripostiglio “contro lo sbadiglio”. Per poter allestire lo spettacolo, diretto dal Favino e Sassanelli, e tentare di fare impresa, gli attori si sono dati tutti la stessa paga. Lo spettacolo è una produzione privata (Gli Ipocriti e Associazione Rep/Gruppo Danny Rose) e forse anche un modo diverso per provare a produrre cultura.
E dato che questo bel gruppo di attori affiatato ci è piaciuto, vogliamo citarli tutti, primo e secondo cast: Bruno Armando, Anna Ferzetti (che donna questa Zaira, una vera femminista…), Giampiero Judica, Diego Ribon, Eleonora Russo, Luciano Scarpa, Pierfrancesco Favino, Fabrizia Sacchi, Gianluca Bazzoli, Pietro Ragusa, Roberto Zibetti, Ugo Dighero, Marit Nissen, Valentina Valsania, Claudio Castrogiovanni, Marina Remi, Stefano Pesce, Chiara Tomarelli, Thomas Trabacchi, Pierluigi Cicchetti, Haydée Borelli.
Francesca De Sanctis, l’Unità – 27-12-2013


L’Arlecchino di Favino trasporta Goldoni nella Rimini anni ‘30

Sarà l’anno di Arlecchino questo, che continua a vivere negli abiti strehlieriani con Ferruccio Soleri, e attrae però anche nuove generazioni di teatranti a misurarsi con il classico di Goldoni. Dopo Antonio Latella che ha debuttato da poche settimane con il suo Servitore di due padroni destrutturato, tocca ora a Pierfrancesco Favino che assieme a Paolo Sassanelli (con Marit Nissen e Simonetta Solder) ha tradotto e adattato One man, two guvnors, del drammaturgo inglese Richard Bean. Se quel copione ambientava la commedia di Goldoni in una malavitosa Brighton, nel 1963, ora la versione italiana Servo per due ( all’Ambra Jovinelli fino al 6 gennaio) sposta la vicenda in una Rimini anni ’30. Non è un gioco di scatole cinesi, è che il meccanismo teatrale goldoniano è talmente forte da stimolare il suo “ammodernamento”. In questo caso il “doppio” servitore si chiama Pippo (lo stesso favino) e si divide, molto divertito e immedesimato, nel ruolo di subalterno opportunista e regista incallito di trame, anche nei confronti del pubblico. Viene alla mente anche un’edizione serba, pochi anni fa alla Biennale, in cui Arlecchino affrontava addirittura i Balcani in guerra. La compagnia ha un impianto da grande produzione: la preparazione è durata quasi un anno, tra prove e laboratori vari, dal circo al canto alla danza. C’è un’orchestrina in scena con strazianti melodie da Trio Lescano, e i 21 attori formano due cast che si alternano ogni sera, tranne alcuni che fanno la prima voce tutte le sere, a cominciare da Favino fino a Bruno Armando e Ugo Dighero. Tutti cantano, ballano, saltano e cadono, a un ritmo che sembra non potersi fermare in una spirale di gag e di battute e battutacce. Questo ne farà probabilmente un “caso” sugli anemici palcoscenici italiani, destinato a un prolungato successo, soprattutto per l’energia senza risparmio di quasi tutti gli attori. Non solo Favino (che è attore eccellente, anche al cinema e tanto più in teatro, dove può vantare inoltre solide radici ronconiane nel periodo romano del regista), ma da Armando a Anna Ferzetti da Diego Ribon a Fabrizia Sacchi, e a tutti gli altri che si prodigano in una girandola di brutti scherzi e bricconate, senza timore di evocare la mitica D’Origlia-Palmi e Paolo Poli. Forse (ma avverrà probabilmente nelle repliche di assestamento) la regia dovrà cercare di dare un maggiore ordine a tutte quelle risate, per far capire meglio al pubblico le loro motivazioni. Ora lo spettacolo sembra parlarsi addosso, e non è semplice per lo spettatore districarsi in quel pandemonio. Forse anche per l’abuso di spiri tosate che in questi anni ci sono piovute dall’alto.
Gianfranco Capitta, Il Manifesto – 21-12-2013


Favino val bene un Goldoni

C’è da chiedersi se Checco Zalone, con la sua voglia di far ridere frequentando il politicamente scorretto, appartenga alla stessa schiatta di Arlecchino ma è certo che per cacciare gli esattori di Equitalia alla porta Arlecchino avrebbe risposto anche lui “Noo, semo cattolici!”. Di questi tempi cinema e teatro medicano le ferite degli spettatori facendoli ridere, almeno per due ore. Platea e palchi della Pergola di Firenze esplodono letteralmente dalle risate a “Servo per due” che sarebbe poi il servitore dei due padroni goldoniani riscritto da Mister Bean e rimpatriato in Italia nella felliniana Rimini anni Trenta dal Gruppo Danny Rose capitanato da Pierfrancesco Favin, coregista con Paolo Sassanelli. Alla cura goldoniana già salvifica – fare due lavori in nero per sfangare e condire con lazzi da commedia dell’arte – si aggiunge un toccasana infallibile, avanspettacolo e rivista shakerati con abilità e grazia canora eseguita dal vivo dai quattro elementi di “Musica da Ripostiglio”. Tra amarcord di pinguini innamorati, sassolini nelle scarpe, maramao, motivetti che ci piaccion tanto, mille lire al mese e costumi da “Corriere dei Piccoli”, poteva mancare un passaggio del mitico Rex? Credo che Goldoni si farebbe vivo anche dall’al di là per sforbiciare personalmente il suo plot se si accorgesse che rallenta un po’ il felice fluire della parte musical-rivistaiola. Favino in calzoni alla zuava è agile e abile nel coinvolgere il pubblico. Ugo Dighero inventa un irresistibile vecchio cameriere che beccheggia e rende ancor più esilarante la cena per i due padroni. Un consiglio: chiedete asilo politico ai palchi e alla piccionaia se non volete farvi coinvolgere ed essere trascinati in palcoscenico.
Rita Cirio, l’Espresso – 20-12-2013


Goldoni secondo Favino. Rivive l’avanspettacolo.

Il più grande successo del Royal National Theatre in questi ultimi anni è stato un adattamento del Servitore di due padroni di Goldoni ad opera di Richard Bean, dove la complessa farsa di sdoppiamenti (tra l’altro, con una ragazza travestita da uomo che si spaccia per il gemello ucciso) era ambientata tra piccoli malavitosi a Brighton e nei primi anni 60, con musica skiffle pre-Beatles; la comicità faceva leva sulla più trucida tradizione britannica delle facezie volgari (le Ealing commedie, ma non solo), a base di torte in faccia, peti, spettatori trascinati sul palco e sbeffeggiati e via dicendo. Vedere tutto ciò eseguito da grandi attori e nel sacrario drammatico nazionale deliziò il pubblico, stimolando una serie di repliche che ben presto si spostarono nel West End e a Broadway. Oggi Servo per due, versione del testo di Bean ad opera del Gruppo Danny Rose – collettivo autogestito promotore dell’interessante iniziativa di darsi un ampio repertorio e variarlo continuamente – riporta il tutto in Italia collocandolo stavolta in epoca fascista, con sullo sfondo qualche blanda camicia nera e anche il Rex felliniano, ma soprattutto con un’ampia antologia di canzonette dell’epoca, spiritosamente rinfrescate da un quartetto toscano chiamato Musica da Ripostiglio; al posto del rigore quasi scientifico della perfettissima edizione inglese c’è un po’ di allegra sgangheratezza nostrana, il recupero essendo quello dell’atmosfera del vecchio avanspettacolo. Immutato il gradimento della sala, anche qui beata di trovare un classico ammorbidito: da subito scattano gag impenitentemente goliardiche che mettono in chiaro come la trama sia solo un pretesto e contino le aggiunte, strampalate ma spesso irresistibili. La regia dei coadattatori Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli dà ampio spazio agli interventi del complesso musicale e controlla lo scatenarsi della brillante compagnia, cavalcando le risate fino a esagerare un po’, forse, nella durata (più delle 2h 45’ dichiarate). Anche protagonista e instancabile pivot sornione, Favino si inventa una vocetta querula da vecchio doppiaggio di Jerry Lewis e lascia acrobazie e azioni più fisiche ai colleghi, tra cui ho spazio solo per nominare Pietro Ragusa e Marit Nissen.
Masolino d’Amico, La Stampa – 02-12-2013