Filumena Marturano

di Eduardo De Filippo

Ccà sta ‘a ggente ‘e munno.
‘O munno cu tutt’ ‘e llegge e cu tutt’ ‘e diritte…
‘O munno ca se difende c’ ‘a carta e c’ ‘a penna.
Domenico Soriano e l’avvocato…
E cccà ce sto io: Filumena Marturano, chella ca ‘a leggia soia è ca nun sape chiàgnere.

scene e costumi Bruno Buonincontri
musiche Pasquale Scialò
luci Cesare Accetta
regia Cristina Pezzoli

con
Isa Danieli, Antonio Casagrande
Gigi De Luca, Virginia Da Brescia, Mario Salomone, Lucia Nigri, Antonello Cossia, Adriano Mottola, Antonio Spadaro, Antonella Romano, Patrizia Capacchione, Gino De Luca

 

Lo spettacolo è stato allestito in occasione del centenario della nascita di Eduardo De Filippo ed ha debuttato il 7 novembre 2000 al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno

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Lo spettacolo è stato programmato anche nelle stagioni teatrali 2001-2002 e 2002-2003 ed ha concluso la sua tournée, dopo aver effettuato oltre 400 repliche, al Teatro Comédie des Champs Elysées di Parigi nel novembre 2003.

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Lo spettacolo è stato registrato per RAI-DUE PALCOSCENICO per la regia di Cristina Pezzoli con gli stessi interpreti ed è andato in onda sabato 2 novembre 2003.

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Note di regia

DELLA NECESSITÀ DI METTERE IN SCENA EDUARDO

Leggo in questi giorni l’intervista di un grande artista solitario che, tra le altre cose, stigmatizza l’inutilità di rappresentare Eduardo senza più Eduardo; opinione simile era già stata espressa qualche tempo fa, da un altro autorevole collega. È evidente che Eduardo come CHarlie Chaplin o Buster Keaton, in quanto interprete, è una “maschera assoluta”, cioè uno di quegli artisti che si congiungono così intimamente con i loro personaggi da non poterne più essere separati.
Chi mai potrebbe, se non scadendo in imitazioni da varietà televisivo, rifare Charlot senza essere Chaplin? Sembrerebbe allora che i due artisti di cui sopra avessero ragione. Ma Eduardo, oltre che la geniale ed irripetibile maschera di se stesso è stato anche un grandissimo drammaturgo e ha lasciato come patrimonio per il futuro parole, storie, umanità che sono assolutamente, indiscutibilmente rappresentabili anche senza Eduardo oltre Eduardo.
Forse certe invocazioni un po’ sospette di alcuni grandi vecchi del teatro italiano che tendono alla “santificazione” museale di Eduardo, certe affermazioni perentorie, rispondono più alla radicale tendenza “uraniana” di molta parte di questi artisti che teorizzano e auspicano diluvi e deserti dopo di loro, piuttosto che alle presunte vere intenzioni del signor Eduardo, il quale, a ottant’anni suonati, aveva invece ancora voglia ed energia di andare a fare lezioni di teatro per, come dicono gli orientali, “insegnare a costruire il tempio”, quando è trascorsa la stagione dell’aver imparato e dell’aver costruito.
Certo il teatro di Eduardo può provocare un effetto paralizzante per la “monumentalità” delle interpretazioni che lui, Titina, Peppino e altri grandi attori che vi si sono cimentati, ne hanno dato. Ma credo che sia indispensabile “profanare” il timore reverenziale che possono incutere le sue opere, per poterle penetrare e rileggere nel presente, con un rapporto di fedeltà e tradimento al tempo stesso.
Fedeltà al congegno, straordinariamente perfetto, della struttura drammaturgica, dell’umorismo, del ritmo narrativo. Tradimento rispetto a certe modalità interpretative che rischiano di dare origine a sgradevoli cascami manieristici d’imitazione eduardiana, e non di sostanza.
Penso in primo luogo alla recitazione, ma anche allo spazio scenico e alla possibilità di sottrarlo a un certo realismo, di provare a simbolizzare nella scenografia, certi nuclei tematici profondi della scrittura: la camera da letto-“ring” su cui si battono Filumena e Domenico assistiti dai loro “secondi” Rosalia e Alfredo, nel primo atto, anziché il salotto umbertino suggerito dall’autore; il “trasloco” in cui incessantemente vagano tutti i personaggi del secondo atto, come se la casa perdesse la sua rassicurante intimità e li vomitasse fuori sul pianerottolo, come sfollati senza più luogo di appartenenza, dove tutti sono solo di passaggio. Poi finalmente entrare nella casa trasformata in un “tribunale” in cui si processano l’inganno e la finzione di Filumena e dove Filumena, rovesciando l’accusa, processa l’ipocrisia del mondo “cu tutt’ ‘e llegge e tutt’ ‘e diritte”, che non ne vuole sapere di chi da sempre vive e sopravvive ai margini. E infine una terrazza d’atmosfera cechoviana dove far svolgere l'”happy end” del terzo atto in cui si ricompongono, senza enfasi, con pudore, i conflitti; e la struggente tenerezza di Filumena che corona con un matrimonio fuori tempo, il suo sogno di “dignità” come una buffa Cenerentola che arriva ala ballo del principe ormai vecchia e con le scarpe nuove troppo strette … C’è ancora tanto da raccontare di questo testo, se si supera la “sindrome da confronto” che può originare solo il fantasma sterile e deleterio del tentativo di variazione virtuosistica : non c’è nessun “do di petto” da produrre sui testi di Eduardo, sulle sue battute note come le arie delle opere di Verdi, non c’è da stabilire o esibire certificati di idoneità alla “rappresentazione doc” delle sue opere, ma solo trattare Eduardo da quel geniale autore internazionale che è, capace di utilizzare Napoli e la sua umanità come metafora del mondo.
La vitalità del teatro di Eduardo si misura, infatti, nella capacità, propria solo dei grandi testi e dei grandi autori, di contenere livelli molteplici di significato che persistono nel tempo senza isterilire come mummie rinsecchite in un museo, ma continuando a irradiare altri racconti, nel presente.
Cristina Pezzoli

Scene

Alla domanda “Cosa vuoi farne di questo testo?” Cristina Pezzoli mi rispose ”Vorrei che Eduardo venisse fuori per quello che è, un autore europeo, perciò non vorrei sentirmi legata a una natura di matrice esclusivamente napoletana. Vorrei anche che lo spazio nel quale si consuma la vicenda di Filumena non fosse, come da didascalia, un unico ambiente, ma una serie di luoghi che mi aiutino a scandire visivamente il ritmo della commedia”.
Mi trovai pienamente d’accordo e cominciai a vagare negli infiniti spazi della drammaturgia europea, dalla Francia alla Germania, dall’Inghilterra alla Russia, mantenendo comunque come punto di partenza l’Italia e in particolare naturalmente Napoli.
Perché non tirare l’intera vicenda fuori dall’intimità delle pareti domestiche collocandola in una situazione di più ampio respiro, come l’esterno-interno di un palazzo di sapore vagamente settecentesco, con le sue scale, i suoi ballatoi, i suoi scantinati, i suoi terrazzi, partendo dall’androne con il suo portone d’ingresso?
Mi trovavo cosi ad aver portato allo scoperto la vita di tutti i personaggi: la storia di Filumena non è più una vicenda privata, ma una vicenda vissuta nella promiscuità quotidiana di un condominio che guarda e giudica, con ironia, con severità, ma sempre con grande umanità. La macchina scenica era complessa, anche per la rapidità di cambi di luogo, ma non mi sono lasciato intimorire, anzi ho fatto ricorso a quelle antiche macchinerie teatrali che ignorano i motori e i congegni complicati, la cui sofisticata costruzione spesso tradisce, e ho affidato i movimenti di scena alle mani esperte dei macchinisti e alla loro abilità, che dona sempre ai cambi a vista quel tocco di incanto particolare, come quello del suono di uno strumento acustico rispetto all’algida perfezione di un suono elettronico.
Spero che il risultato del mio lavoro sia di aiuto alla lettura del disegno complessivo, che dia la sensazione di vivere lo spazio in modo dinamico e coinvolgente, e che dia l’impressione che a volte potremmo anche trovarci altrove.
Bruno Buonincontri

Musica

Se gran parte della diffusione del teatro di prosa di Eduardo è legata, ancor prima del testo scritto, alla memoria collettiva delle straordinarie interpretazioni dello stesso autore, ciò non vale anche per la relativa musica di scena. E questo non perché il Nostro non si avvalesse di prestigiose collaborazioni musicali o perché non avesse un forte legame ed interesse per il mondo musicale. Ma perché il teatro di prosa di Eduardo è concepito in maniera compatta come unità verbocentrica. Il rapporto tra musica e testo teatrale, a parte qualche tema d’ambiente in apertura e chiusura dei singoli atti, scaturisce quasi sempre come prolungamento naturale legato a specifici momenti drammatici. Spesse volte la sua presenza più che costituire un momento musicale in senso stretto, la si ritrova sotto forma di comportamenti sonori quali parodie di canzoni tradizionali (si pensi all’esecuzione contraffatta della pastorale natalizia in Natale in casa Cupiello) o, al limite, alle esecuzioni surreali di allusive sequenze fonematiche. Insomma, si tratta, quasi sempre di un gesto sonoro interno al contesto.
Partendo da queste considerazioni, il lavoro compositivo per Filumena Marturano si è mosso parallelamente su due piani che rappresentano due diversi sguardi sonori: quello interno e quello esterno. Questa scelta non è da intendersi in senso fisico, come meccanica collocazione nello spazio scenico delle fonti acustiche, bensì in senso concettuale, come collegata a specifiche funzioni drammaturgiche.
Il primo sguardo è quello interno. Interno alla tradizione culturale e temporale di Eduardo. Interno come interiorità. Un interno da intendersi quasi sempre come elemento allusivo. In questo campo si colloca, proprio come ouverture dello spettacolo, la rarefatta simulazione di un gruppo di posteggiatori musicali, un “concertino chapliniano”, che mima una improbabile esecuzione di un orecchiabile motivo di strada. O ancora la scansione metronomica di una pendola che scandisce inesorabile il tempo dell’azione; o, infine, la voce di Filumena che accenna la canzone “Sto criscenno nu bello cardillo”.
Il secondo sguardo, quello esterno, riguarda invece alcuni possibili sviluppi e trasformazioni di temi presenti nel testo di Eduardo. Un esterno rivissuto con inevitabile scarto spazio–temporale della nostra messinscena. Esterno come estraneo ad una concezione della tradizione appesantita dagli stereotipi: e qui, genialmente ricomposti ed esplicitamente ribaltati, si ritrovano proprio tutte le tipologie più convenzionali: figli abbandonati, amanti, servi devoti, madri, reminiscenze del mondo della prostituzione…
Cosi anche la musica guarda e commenta più a distanza con il timbro solitario e metropolitano di un sassofono o con il carattere di un commento cinematografico. Un mare tanto de-cantato bozzettisticamente diventa, per sottrazione, una mistura sonora sgranata. Una radio, fonte sonora della globalizzazione culturale, alterna musica tradizionale americana con quella africana. Mentre una voce inerme di un bambino ambulante canta per strada con emulazione neomelodica:
Vase carnale
dati int’ ‘o scuro,
parole doce
e giuramente sott’ ‘a luna.

Vita mia,
passo ‘e nuttate a chiederme,
vita mia pecché ‘e fatto accussì.
Pasquale Scialò

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