Trianòn – musica

Trianòn: voci femminili dal sottosuolo

Il Trianòn fu uno dei teatri più frequentati a Napoli all’inizio del Novecento. Inaugurato nel popolare quartiere di Forcella, da Eduardo Scarpetta nel 1911, ospitò ogni genere teatrale e musicale leggero: spettacoli di prosa, di varietà, di circo, oltre alla rinomata compagnia di sceneggiata Cafiero-Fumo. Ma non è di questo che tratta il lavoro di Moscato.
Il riferimento a tale spazio è solo allusivo, un riverbero per situazioni accidentali che evocano il carattere dei numeri teatrali, residui alluvionali di un passato ormai lontano e definitivamente consunto che si sovrappone alla realtà dei luoghi e dei personaggi. L’azione invece si svolge altrove, in un carcere, abitato da un microcosmo di reietti, raccontato in forma rapsodica, un distillato di marginalità umana, o di “scelta” nella direzione opposta, per dirla con le parole di Thomas Bernhard, in chiave femminile: qui la solidarietà vacilla e dai comportamenti affiora una trama di continui, piccoli tranelli, di miserie umane. In una ambigua identificazione tra la realtà e il luogo per eccellenza della sua rappresentazione – il teatro, appunto, e quel teatro – prende forma l’allusione continua che percorre il testo:

«TrianònTrianòn, che d’era stu Trianòn!
TrianònTrianòn, che d’era stu Trianòn!
– se chierevano ll’una cull’ata,
ato che nobiltà, gemma preziosa! Seh!
Carcere oscuro,
galera, cancelle, priggione, chest’era stu Trianòn

Cos’era allora questo Trianòn? Carcere, bordello e teatro a un tempo, luogo reale e mitico, continuamente evocato in un crescendo di attesa e di misero, in cui progressivamente si precisa la gabbia, la rete di condizionamenti dei personaggi e la loro rappresentazione della condizione umana: un copione non scritto ma ineludibile declina la crudeltà pervicace attraverso cui si rafforza e moltiplica il degrado senza riscatto di questo mondo di disperati e si compie, quasi volontariamente, quasi intenzionalmente, il loro destino.
Un senso claustrofobico accompagna lo scorrere degli eventi in questo luogo di pene, in questo teatro-prigione in cui il continuo ricostituirsi di strutture di potere e di gerarchie smentisce ogni pretesa di collettività, di comunità umana. Questo doppio piano fondativo conferisce al testo una specialissima profondità sia etica che spettacolare: una continua alternanza tra il privato e la sua rappresentazione secondo una molteplicità di stili performativi. Un testo dunque di sedimentazioni che ricorda, sia pure in maniera complementare e trasversale, il lavoro di Viviani Eden Teatro, nel quale, dietro l’apparente esibizione di esilaranti numeri di varietà, rivisitati attraverso una lente distorcente, si racconta il degrado umano ed artistico della scena teatrale minore ai primi del Novecento, teatro, piuttosto, dello squallido sfruttamento dei corpi femminili.
…. L’azione si svolge all’alba di un’epoca imprecisata nel sottosuolo, in una ampia cella del Trianòn-carcere, altrimenti detto anche «abbascio ‘o tammurro», in quanto unico medium sonoro disponibile per essere percosso dalle sventurate recluse, o esse stesse pelle-corpo risuonante, nell’estremo tentativo di poter comunicare all’esterno con le guardie. Il luogo dell’azione prescelta, dunque, mostra subito una chiara allusione organologica e musicale, propria della scrittura di Moscato. Immerse in questo spazio sonoro, cassa armonica, riverberante voci, lamenti, urla, reiterate richieste ineluse, sono quattro prostitute, accidentalmente riunite per accertamenti a seguito di una retata della polizia: Nanà (protagonista dal piglio mascolino), Lulù 1 (antagonista, futura capo banda), Lulù 2 (principiante, fobica), Lulù 3 (romantica, melodrammatica). Quattro personaggi, quattro replicanze. Nanà porta con sé i ricordi, le umiliazioni, gli orrori, i segni indelebili già vissuti nell’esperienza di Luparella, senza sdoppiamento, come naturale prolungamento di una sorte predestinata. Le altre tre donne, invece, già dal nome ordinato serialmente, evidenziano in modo più esplicito la cifra di personaggi isomorfi. Varianti sottili, per quanto ben delineate, di una stressa condizione, di un sottoinsieme, così come avviene per gli isotopi di alcuni elementi chimici: figure risultanti, riprodotte in serie da una stessa “Traviata-matrice”. Se poi sia quella dalle tinte melodrammatiche verdiane o la versione mediterranea di quella umiliata femminilità deviante della Lulù-cantante-prostituta di Alban Berg (a sua volta migrante dalla letteratura di Frank Wedekind), poco importa!
Ma Trianòn di Moscato oltre a questi personaggi, presenti in carne ed ossa in scena, prevede la presenza narrata di almeno altre tre figure invisibili, ma non per questo meno importanti. Innanzitutto l’appuntato-secondino: “carnefice” sprezzante, sordo ad ogni richiesta sia pur minima, o fosse anche pretestuosa, di spezzare l’angosciante isolamento delle recluse col mondo esterno….
Altro personaggio fuori campo è quello del maniaco Pagnuttella, figura perversa che sottopone le donne di vita a raccapriccianti prestazioni. Eppure malgrado ciò, nell’esilarante rendiconto di Nanà, la sua presenza può risultare perfino accettabile, se non consolatoria, una sorta di diversivo capace di spezzare quel cerchio di insostenibile uniformità che segna «la loro miserabile, anonima esistenza…»
Poi Moscato, sempre in maniera riferita, introduce un altro personaggio, questa volta femminile, ma non per questo meno inquietante, Nannina l’Urdema Vota. Vecchia e disfatta prostituta, che si aggira cantando con voce da carrettiere, contro ogni regola, tra le celle dei reclusi, offrendosi a coloro che hanno lunghe pene da scontare….
La forma adottata da Moscato per questo lavoro, che rinvia inequivocabilmente all’idea di partitura musicale per quattro voci femminili, è quella “sfrangiata”, in parte libera, in parte legata alle forme convenzionali per giustapposizione. Macrostruttura del lavoro risulta comunque quella del rondò, realizzata grazie al sapiente uso di ostinati, di ritornelli, generalmente rivolti all’indifferenza dell’appuntato.
Ma questo continuum sonoro è anch’esso, specie nella prima parte, interrotto da cadenze di inganno. In tal modo l’autore sospende intenzionalmente il flusso narrativo restituendo quel senso di smarrimento. Gioca un ruolo espressivo centrale la presenza di silenzi. Un silenzio che scandisce i tempi teatrali e che, come una composizione di John Cage, consente di concentrare l’attenzione sull’intorno fisico. Qui l’esterno, il fuori prigione, compare ancora in forma acustica: il riverbero di lontane canzoni o quel variegato mondo di comportamenti e gesti sonori che Moscato denomina “musica d’ ‘e disperate”. Una musica quasi terapeutica che almeno lenisce il dolore di una condizione che, altrimenti, sarebbe insopportabile.
Ma la “musica d’ ‘e disperate” vive anche all’interno della cella con forme e modi diversi. Melologhi, invettive verbali e ritmiche di Nanà rivolte all’appuntato, versi spezzati di poesia per musica, involontari “numeri” para-macchiettistici, lunghe filastrocche allusive con un linguaggio che spazia dal gergo di prostituzione al furbesco, fino a quello medico. Ed ancora il rinvio a citazioni cinematografiche ricondotte alla ordinaria condizione di emarginazione delle donne nell’intento di esorcizzare la loro angoscia attraverso la parola. Tanto: «Loro so’ ‘nnammurate sule d’ ‘e parole, ‘e chilli sciuscie d’aria senza consistenza, ca so’ ‘e parole, meglio ancora si sonano furastiere…»
Pasquale Scialò