Trianòn – note di regia

Un banale e comunissimo “incidente sul lavoro” (il solito fermo in questura di 24 – 36 ore per le prostitute) mette insieme nello spazio di una “nuttata” quattro esponenti della suddetta categoria.
3 Lulù e 1 Nanà. Le Lulù sono contrassegnate, per differenziarle, solo da un’elementare procedura aritmetica: Lulù 1, Lulù 2, Lulù 3. Omonima ma in fondo non del tutto anonima, identica faccia del mestiere più antico del mondo. C’è infatti, la cinica e incallita, c’è l’ingenua e sprovveduta, c’è la romantica doverosamente in linea con lo stilema da melodramma, sofferta e minata dalla tisi e c’è infine Nanà, forse un'”operaia”, forse un transessuale, forse solo una creatura femminile che ha dovuto imparare molto presto le maschili leggi della giungla dove ci si ritrova a battere tutt’e quattro ad ogni modo, collocate su una linea discorsiva e non rappresentativa della prostituzione, non foss’altro che per il “vizio” (che insistentemente dimostrano di avere) di riflettere e pensare su ciò che fanno e sono in relazione agli schemi etici, sociali e soprattutto di controllo poliziesco che la fiancheggiano, in un gioco di odio e sarcastica riconoscenza di ripulsa e momentanea rassegnazione.
Questa strana ed eterogenea quadriglia stipata nella solita cella, riservata e di rito, cerca e trova una notte il modo di vincere il tempo e la coatta promiscuità nel più tradizionale dei modi possibili ossia raccontando, raccontandosi e cantando proiettandosi dalla galera verso un immaginario palcoscenico (il mitico “Trianon”, appunto) e avviluppando, ciascuna a suo modo, la propria autobiografia nelle volute di una spirale fiabesca (un fiabesco strettamente e inquietantemente intrecciato al quotidiano), che, nei suoi rimandi storico-politici, è l’eterno contentino-castigo con cui il potere sotto qualunque cielo ed epoca nutre dopo essersene servito i “deracines“, gli esclusi, non sempre però vincendo la partita soprattutto quando il gioco della “briglia e dell’imbroglio” diventa nelle mani degli ingannati, sberleffo beffardo, velenosa ironia.
Enzo Moscato