Ferdinando

di Annibale Ruccello

Ferdinando, di una bellezza morbosa e ambigua, riuscirà a conquistare lentamente tutti i protagonisti della storia, intrecciando promiscue relazioni e facendo così scoppiare tutte le contraddizioni e i veleni sopiti sotto la polvere e le ragnatele….

scene Franco Autiero
costumi Annalisa Giacci
luci Giorgio Saleri
regia Annibale Ruccello messo in scena da Isa Danieli

 

con Isa Danieli
Alessandra Borgia, Giuliano Amatucci, Adriano Mottola

Note

In una decadente e decaduta villa della zona vesuviana, un anno prima della presa di Roma da parte dell’esercito italiano, si sono rintanate due donne. Donna Clotilde, una baronessa borbonica che, dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, vi si è rifugiata serrandosi nel letto e nel dialetto come segno di disprezzo per la nuova cultura piccolo borghese che si va affermando dopo l’unificazione, e donna Gesualda, sua compagna di «prigionia», una cugina povera che svolge presso di lei l’ambiguo ruolo di infermiera/carceriera scandendo le giornate fra pasticche, acque termali e farmaci vari. Le due donne hanno come quotidiano ospite della villa il parroco del paese, Don Catellino, un prete meschino ed ambiguo che si barcamena tra un atavico servilismo borbonico e traffici con la nuova classe politica in ascesa. Tutto sembra immoto, ormai irrimediabilmente intrasformabile, quando l’arrivo imprevisto e repentino di un giovane nipote di Donna Clotilde getterà il «classico» scompiglio nella villa. Ferdinando, di una bellezza morbosa e strisciante, riuscirà a conquistare lentamente tutti i protagonisti della storia, intrecciando promiscue relazioni con le due donne e con il prete, facendo così scoppiare tutte le contraddizioni ed i veleni sopiti sotto la polvere e le ragnatele.

Il testo si muove su diversi livelli contenutistici di cui il più evidente risulta connesso ad una riconsiderazione del processo di unificazione nazionale. Gli eventi storici vengono riletti dall’angolazione tutta privata e familiare di una vecchia classe ormai in decomposizione assumendo un senso trasversale di mutamento verso una nuova realtà ugualmente preoccupante nella sua totale assenza di valori morali.

Ma, ovviamente, non mi interessava minimamente realizzare un dramma storico. Accanto a questa lettura più palese e manifesta prende corpo l’analisi e il tentativo fotografico di messa in evidenza dei rapporti affettivi intercorrenti fra quattro persone in isolamento coatto. Gli odi, i desideri, le bramosie sessuali, le vendette, le sopraffazioni, le tenerezze, gli abbandoni, fra quattro personaggi, tutti perduti, dannati da una storia diversa per ognuno, ma sempre inclemente e perfida.

Infine c’è una chiave della vicenda di carattere più metaforico che allude ad un mutamento di valori e ad un salto generazionale e culturale molto simile a quello attualmente operante nella nostra società dove ai vecchi comportamenti e alle vecchie ideologie si vanno sostituendo nuovi modi d’azione, ancora più brutali nella loro assenza di coordinate storiche.

La forma utilizzata per narrare queste intenzioni è inizialmente quella del vecchio romanzo verista (o semplicemente realista) che lentamente si degrada in romanzo d’appendice, se non in romanzo vero. È come se da Verga o da De Roberto (ma in qualche modo anche da Mann) passassimo, senza accorgercene a Carolina Invernicio, a Collins, a Huysmans. E questo degradarsi della forma narrativa va di pari passo con il degradarsi della vicenda e dei personaggi.

Annibale Ruccello 

Scene e costumi

L’ARCA DEL NOCILLO DELL’ALLEANZA

Il percorso in pianta e in prospetto dello spazio scenico è alla maniera di piccolo vassoio per servire a ospiti, per niente sospettosi al riguardo, un definitivo sorso di nocillo. Ma voi sapete, qui da noi, con l’allentarsi della Controriforma, ognuno fa l’antico infuso a modo suo: chi raccoglie il mallo acerbo la vigilia di S. Giovanni, chi la notte, chi il giorno stesso e voi sapete, l’avvento non è la stessa cosa della festività. Basta un nulla e tutto cambia.
Lassù, come Napoleone nell’Apoteosi dell’Appiani nel palazzo reale di Milano, Donna Clotilde dei Lucanigro del regno dei terroni, scura nella chioma ma scintillante nello sguardo, proprio come nocillo in molato cristallo nel suo retrogusto acre e insieme zuccheroso, a noi si svela e si rivela sul vassoio.
Ma anch’ella traballa, è instabile proprio come il bicchierino scintillante o come il Napoleone di pocanzi in balia dei prezzolati reggitori.
Intanto bisogna dare il tempo necessario all’infuso di fermentare e di sedimentarsi, di depositare sul fondo le scorie salvando gli umori e le essenze per divenire, nel percorso del rigido canonizzato ricettario, nocillo o alcool o puro spirito che dir si voglia. Ma non c’è più tempo, l’ospite è già qui, è ora di venire spirito, in un modo o nell’altro, nocesse est. Dunque bere nei bicchierini molati gli amari calici.
E sia.. È l’ora!
Tutto è vero e tutto è falso insieme, proprio come Clotilde, in un viscontiano senso della falsità più daccanto alle passioni nobilmente plebee di Senso che non a quelle degli dei della Götterdämmerung nella loro precipitosa caduta.
Tra sopiti rancori e timor panico della divinità appaiono e si degradano nel loro comparire, provinciali apparati nobiliari subdolamente minati dall’ossessione cadenzata dei cembali dei lazzari furfanti che, dal di fuori, nell’attesa vendicativa di un qualche cambiamento o di un minimo turbamento negli sguardi, aspettano come gli indiani nell’assedio di forte Apache.
E la Donna… la Nobildonna asserragliata nel suo letto quasi ultima turris eburnea, essa stessa salus infirmorum di se stessa medesima, sciabola ancora pur sapendo che perduta è la guerra e non solo la battaglia.
Quattro tempi e quattro decisi colori: il bianco, il rosso, il verde e il nero, come nel tricolore negli apparati del lutto nazionale.
Poi nebbie azzurrine e vapori sulfurei intravisti dagli scuri appannati, ma la lava rappresa là fuori è ancora maleodorante di sterco e forse ce ne sarà ancora a penitenza di arcaica bestemmia che più nessuno ricorda.
Intanto il nero vulcano è ceruleo e bonario agli occhi dell’attonito viaggiatore che in queste vetuste contrade, infestate da sirene e briganti, discende.
E poi verrà l’angelo dello sterminio con le ali ancora impolverate di zolfo che, come tutti gli angeli, con le buone maniere e con la buona creanza, che a volte qui da noi, come abituale scongiuro all’anatema, si usa ancora, infrangerà l’ampolla che conteneva il patto del nocillo dell’alleanza.

Francesco Autiero 


RITRATTO DI FAMIGLIA IN UN INFERNO

Donna Clotilde, la cugina Gesualda, in mezzo il prete, in alto Ferdinando. Composto ritratto di famiglia in un interno del 1865.
Ma il dramma e l’intrigo sono in ogni piegolina, in ogni gancio, in ogni laccio dei loro vestiti.
Progressivamente la passione scompone i loro abiti: cadono le forcine, le donne diventano Parche, diventano demoni o anime sofferenti per amore come quelle del Purgatorio all’angolo del vicolo.
Ricordi viscontiani e sensazioni polverose di antichi armadi si accumulano e si confondono. Nobile e arrogante nel portamento donna Clotilde, mortificata nel vestire la cugina povera, sciatto il prete, splendente e falso l’angelo della morte.
I colori esprimono le loro stagioni in un precipitare scomposto verso il nero del lutto.
Costumi ricostruiti da foto e dipinti d’epoca ma curiosando nel particolare, entrando appunto nelle pieghe.
E poi, per loro come per me, il fare teatro: il provvisorio velo della Vergine di Don Catello, lo scudo di solido diamante e la corazzetta strappata da Gesualda alla statua di San Michele.

Annalisa Giacci 

Musica

LA MUSICA DI FERDINANDO

Caro Annibale,

che bello! Si rifà «Ferdinando», così come lo hai voluto tu. La tenacia di Isa ce l’ha fatta e la tua opera più bella e drammatica torna sulle scene insieme ai costumi, alle scene, alle musiche con cui è nata. Già, le musiche con cui è nata. Già, le musiche… Ricordi quando me ne parlasti la prima volta? Ti rivedo illuminato dal tuo sogno di «gran cerimoniale barocco»; capii che volevi qualcosa di speciale, di importante, che non potevi essere deluso. Ho composto con grande amore il tema concertato a 4 voci, ho provato ore e ore con i giovani cantanti che senza conoscerti si entusiasmarono per il progetto, io stesso ho cantato la parte del basso, volendo «esserci» come non mai nel tuo testo, nella tua poesia.

Ricordi quando ti portai il nastro finito? Stavi in una sala prove, il Revox era montato e… non sapesti resistere: volesti ascoltare tutto e subito, con la voracità fanciullesca che ti era propria. “Se cantar mi fai d’amore…”, quando partì il tema del tenore cominciasti a misurare con i tuoi grandi passi la sala e già costruivi nella tua mente le prime immagini dell’opera, già mi guardavi raggiante, col sorriso che sapevi mi avrebbe appagato.

Sono passati venti anni, e io non riesco a pensare al «Ferdinando» di oggi come a una commemorazione: quando mai? Si commemora chi non «c’è» più, ma io continuo a vederti in ogni teatro in cui da «allora» ho lavorato, in ogni brano che compongo in ogni «chi è di scena?» che sento.

Continuo a vederti come in quella sera di venti anni fa, quando io e te (con buona parte della pletora di «amici intimi» spuntati poi come funghi) per l’ultima volta parlammo di musica e di vita.

Carlo de Nonno 

Ricordi

Lo spettacolo Ferdinando ha debuttato nella stagione teatrale 1985.86 – prodotto da La Contemporanea 83 – con Annibale Ruccello autore e regista nonché interprete nel ruolo di Don Catello.
Nella stagione successiva (1986.87) lo spettacolo fu programmato – sempre da La Contemporanea 83 – a Palermo, Cagliari, Torino, Milano, Napoli grazie a Isa Danieli che riuscì a riprendere la regia di Annibale Ruccello che il 12 settembre 1986 fu vittima di un terribile incidente stradale.
In occasione del 10° anniversario dalla scomparsa dell’autore (1986-1996), lo spettacolo fu prodotto dalla Coop. Gli Ipocriti; nel cast oltre Isa Danieli che ne curava anche la messa in scena, gli attori Marzio Honorato, Luisa Amatucci e Adriano Mottola.
Nelle stagioni teatrali 1996.97 e 1997.98 Giuliano Amatucci prese il posto di Marzio Honorato mentre Alessandra Borgia sostituì Luisa Amatucci.

Ferdinando in Tv

Nel luglio 1998 lo spettacolo è stato registrato al Teatro Petrella di Longiano per RAIDUE Palcoscenico; la regia televisiva è stata affidata a Giuseppe Bertolucci.

In onda per la prima volta sabato 7 novembre 1998 RaiDue Palcoscenico ore 22.40
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Ho scoperto il FERDINANDO di Annibale Ruccello solo quest’anno, in occasione dell’edizione  televisiva e devo subito confessare che il primo sentimento è stato quello di un diffuso e prolungato divertimento. Il divertimento del racconto, il divertimento del teatro come infallibile dispositivo di colpi di scena, il divertimento di Ruccello nel giocare come uno scriteriato “piccolo chimico” con le passioni, i vizi, e gli istinti delle sue quattro creature. Ma il privilegio di poter guardare attraverso il microscopio delle telecamere mi ha consentito di apprezzare da vicino anche le altre grandi qualità di questo piccolo “classico” napoletano. In primo luogo la performance linguistico letteraria del testo, la sorprendente, quasi inquietante attitudine mimetica dell’autore nel calarsi in un passato remoto lessicale e sintattico così ricco e smagliante. Ma attraverso la lingua il filologo-antropologo Ruccello legge tutta la complessità culturale di un luogo e di un tempo storici e ci abita dentro e ci si aggira con un’ammirevole disinvoltura. E infine, e qui sta forse il maggior pregio del FERDINANDO, voglio dire che mi ha assolutamente affascinato la generosità drammaturgica di Ruccello, quell’attitudine a scrivere per gli attori; quel particolare piacere del testo teatrale (così diverso da quello letterario), che è appunto finalizzato a offrire, prima di tutto, un’occasione di piacere all’attore sulla scena. E a questo proposito non posso tacere tutto il mio ammirato divertimento nel vedere all’opera l’impagabile tecnica di Isa Danieli, che metabolizza teatralmente questo testo e lo offre in dono (in pasto) al pubblico, come un vaso di miele, governando l’alveare della sua piccola compagnia con l’energia ed il talento di un’ape regina.
Giuseppe Bertolucci

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