Il Guardiano

di Harold Pinter

scene e costumi Luca Sallustio
musiche Pasquale Scialò
regia Nello Mascia

 

con Paolo Falace, Franco Iavarone, Nello Mascia

 

Sul decisivo contributo che i giovani “arrabbiati” inglesi hanno dato alla scena contemporanea, nessuno ha dubbi. La ventata di ribellione che Osborne, Wesker, Arden e compagni hanno immesso con irruenza sulla scena inglese ha contribuito certo a spazzar via le convenzioni più logore del vecchio teatro d’intrattenimento ma a distanza di alcuni anni dal suo manifesto (Declaration), questo gruppo sembra aver perso molta parte della sua carica polemica e della sua forza di scandalo.
Harold Pinter appartiene, se guardiamo ai puri dati anagrafici, alla stessa generazione. Ma il suo lavoro si è svolto piuttosto in parallelo che insieme a quello dei coetanei.
Diversa è apparsa sin dalle prime prove la sua formazione, il suo gusto per una certa cultura, non solo teatrale, tra Kafka e Beckett, tanto per intenderci. E diverso, e senza dubbio superiore, è sembrato l’accanimento con cui questo scrittore esplorava e scavava gli sconfinati territori della parola teatrale.
Pinter ha dalla sua il vantaggio di credere nella parola: e su di essa lavora con accanimento caparbio, la leviga e l’assottiglia con precisione tutta artigianale.
Ciò è tanto più paradossale in quanto in lui la parola è la misura del silenzio degli uomini: quanto più si affannano a parlare, a descriversi e a raccontarsi, tanto più i personaggi di Pinter circoscrivono, in atroci e ben delimitate mappe, gli spazi della propria solitudine: e ad essa non c’è via d’uscita, se non, ancora una volta, il monologo frenetico fino al delirio.
Rilette tutte insieme, le commedie di Pinter testimoniano di una singolare coerenza di ispirazione. Se è proprio del teatro militante reinventarsi giorno per giorno sulle assi del palcoscenico e cedere perciò inevitabilmente alle suggestioni delle mode, possiamo dire che Pinter si colloca, sul piano di una ricerca più rigorosa e solitaria: e in questo modo si situa tra le poche certezze del teatro mondiale del dopoguerra.   (da: H. Pinter Teatro/Einaudi)

NOTE DI REGIA

Mi piacerebbe, ogni tanto fermarmi.
Fermarmi e giocare.
Fare quelle cose che magari
non si ha mai il tempo di fare.
Come fantasticare, per esempio.
Su progetti inattuabili.
Non perché essi siano chissà che.
Ma perché l’itinerario del viaggio
è ormai molto altrove.
Mi piacerebbe avere un posto
– da qualche parte  –
dove riunire un po’ di gente,
qualche compagno.
E giocare.
Giocare e studiare.
Non c’è tempo per studiare.
L’attore (solo l’attore?)
italiano, oggi
non ha tempo per studiare.
Soffoca.
La routine lo soffoca.
E lui impigrisce.
E si smuore.
Questa fu la riflessione.
Banale, se volete.
Ma un po’ servì.
Nacque da qui lo “Spazio parola”.
Quattro file di panche
per pochi spettatori intimi.
Una pedana.
Una stanza.
Uno spazio fisico.
Oltre che dell’anima.
Dove incontrare gente e compagni.
Soffocati.
Per giocare, appunto.
Nacque da qui l’idea
(banale anch’essa)
di una ricognizione
nel teatro contemporaneo europeo.
Senza frette.
Senza confini.
Senza assilli culturali.
Senza scadenze.
Senza soldi.
E fu banale
anche la scelta del primo testo.
Se abbiamo una stanza
–  mi dissi  –
Allora sarà Pinter.
E se sarà Pinter, allora sarà “Il guardiano”.
E cominciammo.
“Il guardiano”, dunque.
Il suo fascino di testo-storico.
Pregno di temi attuali.
Di atmosfere inquietanti.
Di sorprendenti analogie.
Prima di tutto per via del linguaggio.
E già.
Perché, che volete,
a leggerlo, a recitarlo Pinter
per noi napoletani
e come stare a casa nostra.
E ci viene subito in mente
Santanelli o Moscato o Ruccello.
Se non talvolta
Eduardo e Viviani.
Analogie, dicevo.
Come a proposito del tema degli immigrati.
Che nell’Inghilterra 1960
Erano ex sudditi della regina.
E chiedevano fiduciosi
lavoro, casa, benessere
a una nazione ancora disorientata e delusa
dal crollo dell’Impero Coloniale
e perciò impreparata e maldisposta
ad accoglierli.
E nell’Italia del 1990
sono nordafricani prima
e albanesi, rumeni ed altri euro-orientali ora,
che guardano a noi come un miraggio
affascinati da quel benessere finto
irradiato dalle nostre televisioni.
Benessere che noi
(quel poco che c’è)
ci teniamo ben stretti
e non abbiamo nessuna voglia di dividere.
E allora
viene da sé l’idea
di collocare l’azione
in una località indefinita
della Campania del nord.
Zona recentemente al centro
di poco edificanti episodi
di intolleranza razziale.
E poi.
La ricerca della identità.
Perduta.
Dopo il crollo delle ideologie.
E la vittoria assurda e inspiegabile
della logica del consumismo più selvaggio.
Che crea il vuoto.
E poi.
La minaccia.
Alla rassicurante tranquillità
della casa.
Luogo fisico, oltre che dell’anima.
Che si sovrappone al concetto
del viaggio.
Mentale e bipolare per i due fratelli.
Per l’uno
tutto rivolto ad un tragico passato.
Per l’altro
teso verso un improbabile futuro.
E al centro, il guardiano.
Barbone cencioso, concreto
sempre in viaggio da un posto all’altro, lui.
Sempre in cerca di scarpe.
Che in mezzo a quei due non si raccapezza proprio.
Pessimo guardiano di anime com’è.
Sempre in cerca di documenti
(o sempre in fuga da essi?)
di una identità concreta.
Di un posto sicuro.
Il guardiano che sussurra:
“Devo fermarmi da qualche parte.
Non posso più andare avanti così”.
Nello Mascia