Lorenzaccio

di Alfred De Musset

“Io sto scivolando su di una roccia a picco e questo assassinio è il filo d’erba al quale posso aggrapparmi con le unghie. Vuoi che spezzi l’esile filo che tiene unito il mio cuore di oggi ai brandelli del mio cuore di un tempo? Vorresti che lasciassi morire in silenzio l’enigma della mia vita?”. Lorenzaccio, Atto III

traduzione e adattamento teatrale di Paolo Emilio Poesio
scene e costumi Roberto Francia
musiche Pasquale Scialò
regia Maurizio Scaparro

con Giulio Scarpati
Leda Negroni, Fernando Pannullo, Piero Sammataro, Patrizia Zappa Mulas
Max Malatesta, Giulio PIzzirani, Antonella Schirò, Maxmilian Nisi, Massimo Romagnoli, Simeone Latini, Salvatore Lazzaro, Frida Bruno, Massimiliano Andrighetto, Domenico Orsini

 

Prima rappresentazione Teatro Olimpico di Vicenza, 24 settembre 1996

“Firenze 1537. La città è occupata dalle truppe di Carlo V, che ha insediato sul trono ducale un villano allegro e crudele, Alessandro de’ Medici. Questa Firenze archetipica rappresenta per De Musset, come la sua Parigi del 1834, la paralisi di una società incapace di svecchiarsi e trasformarsi veramente. Lorenzaccio è colto attraverso l’immagine che gli altri hanno di lui: Lorenzaccio, Renzo, Lorenzetta, Renzino, chi è costui? La sua maschera non cessa di comporsi e scomporsi ai nostri occhi, a seconda dei rapporti che instaura con gli altri: letteralmente, non è niente e nessuno; da questo l’insopportabile vuoto che deve scongiurare.
Maurizio Scaparro vede in Lorenzaccio il portatore di un’utopia disperata, in un giovane prigioniero della propria solitudine. Egli è anche, però, il portavoce dell’infelicità propria in tutti i secoli di ogni giovinezza, la cui pressione incalzante non si è mai attenuata”.
Robert Abirached

Note dell’adattatore

Attualità del Lorenzaccio

Perché Lorenzaccio, oggi? la scelta di un testo, si sa, è sempre il portato di molteplici motivazioni: contenutistiche, estetiche, sentimentali, storiche. La principale fra queste, è che un dramma, nato in epoche per noi lontane, affronti o per lo meno, suggerisca argomenti che il passare del tempo non ha certo svuotato dei significati di fondo. Nel caso del Lorenzaccio, uno dei temi principali è quello della violenza del singolo contro un potere corrotto, nell’idealistica convinzione che ciò basti a riportare l’ordine e soprattutto la libertà nelle vicende di una collettività. Lorenzino de’ Medici, uccidendo nel 1537 il cugino, il Duca Alessandro de’ Medici – dispotico signore di Firenze – pensava che, emulando il gesto di Bruto il tirannicida, avrebbe offerto ai fiorentini il desiderio di recuperare, e di consolidare la libertà.
Scaparro parla, per questo Lorenzaccio, di “disperata utopia del giovane solitario”, ed in effetti il protagonista del dramma di De Musset è un emblematico rappresentante di quel “teatro dell’utopia” caro al regista, che ha visto allinearsi sulle scene Caligola, Don Chisciotte, Cirano, quell’Amleto di cui Scaparro aveva sottolineato “l’angoscia civile ed esistenziale per la mancanza di uno Stato giusto”; ma segno utopico era anche quello di Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare, che Scaparro aveva diretto per la prima volta proprio all’Olimpico di Vicenza, sottolineando, tra l’altro, il rapporto tra congiura e finzione teatrale.
Memoria utile questa tanto più che Lorenzino per raggiungere il proprio scopo (la soppressione fisica del Duca Alessandro) si è adattato a “recitare” la parte del sodale, in vizio e turpitudini, del cugino: fino ad apparire veramente perverso (di qui la voce popolare che lo definì spregiativamente Lorenzaccio). Il gioco del teatro si innesta così nel tessuto politico di una tragica vicenda il cui esito venne vanificato dall’improntitudine, dall’impreparazione e dalla mancanza di un pensiero comune a coloro che pure ancora alla vigilia del debutto si dichiaravano pronti anche al sacrificio supremo pur di riacquistare la libertà, con un ritorno al potere assoluto, sotto altra veste, ma con immutata sostanza.
Un’ultima curiosità: il Lorenzaccio, scritto e pubblicato nel 1834, fu rappresentato per la prima volta esattamente cento anni or sono, 1896, da Sarah Bernhardt. Prima le censure (monarchica di Luigi Filippo, imperiale di Napoleone III, e repubblicana dopo Sedan) avevano rifiutato il visto. Certi fantasmi fanno sempre paura.
Paolo Emilio Poesio

 

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