Don Chisciotte
Frammenti di un discorso teatrale
di Rafael Azcona, Tullio Kezich, Maurizio Scaparro
regia Maurizio Scaparro
scene Roberto Francia
costumi Lele Luzzati
luci Gino Potini
musiche Pasquale Scialò
coreografie Mariano Brancaccio
con Pino Micol, Augusto Fornari
Marina Ninchi, Fernando Pannullo
Filippo Verna Cuticchio, Francesco Bottai, Stefania Caudullo, Vittorio Cucci, Guia Zapponi
Luca Bagagli, violino – Riccardo Del Prete, chitarra – Alessandra Sigillo, flauto
Nello spettacolo sono stati impiegati I Pupi dei Figli d’Arte Cuticchio.
Note di regia
La solitudine del sognatore
Mi ha sempre incuriosito e affascinato, lavorando sulla figura di Don Chisciotte quel vivere in una realtà del ferro e sognare l’età dell’oro, essere in bilico tra passato e futuro, come capita anche all’uomo di teatro oggi, legato alla sua cultura, alla sua necessità di rivolgere un discorso non massificato a poche centinaia di persone a sera, mentre sulla nostra testa passano messaggi per milioni di individui.
Con la coscienza che quando questo nostro essere uomini cesserà, passeremo la mano ai robot, se non riusciremo a far entrare parole (e idee) come amore, teatro, vita, fantasia nei contenitori nuovi che le tecnologie più avanzate ci hanno preparato e ci preparano per il linguaggio degli anni 2000.
Tra passato e futuro, la vita è il presente, ed il presente rinnovato di questo nostro “Don Chisciotte”, con Pino Micol e Augusto Fornari, è nel viaggio, alla ricerca appunto della Fantasia e dell’Illusione, nel mondo del suo cervello.
Anche per questo accanto alla necessità di ricordare la natura “cavalleresca” del romanzo, ho cercato di privilegiare la natura “carnevalesca” che non solo distingue il cavaliere dalla triste figura e il suo scudiero Sancho Panza, ma anche la varia umanità che li circonda, impegnata in travestimenti e mutamenti continui, reali o apparenti. Mi sembra che l’ “utopia teatrale” abbia nel Don Chisciotte e in Cervantes materia viva e immensa alla quale attingere a piene mani. L’immagine ideale (mi riferisco ad un’immagine più ampia di quella che non si possa realizzare solo in cinema o in teatro) non può prescindere a mio avviso da questa matrice utopica, carnevalesca e quindi teatrale. Così lo spazio che ho scelto per i viaggi della mente di Don Chisciotte è molto semplicemente un “teatro”. Anzi un vecchio cadente rotto “ex teatro”, dove le pareti lasciano scoprire qualche residuo di palchi, dove forse un giorno crescerà l’erba, e dove tuttavia miracolosamente sopravvive un vecchio “palcoscenico”, nudo, con qualche ricordo residuo di macchinerie teatrali, povere e semplici macchine della illusione e della fantasia, che muovono il sipario, modificano le luci, creano il vento, la pioggia, i tuoni.
Semmai, c’è da chiedersi se quella di Don Chisciotte fu vera follia. O piuttosto una consapevole ribellione al linguaggio e al comportamento pianificato che esclude o emargina alcune volontà o possibilità profonde dell’uomo. Come il discorso amoroso. Non a caso avevo citato nei giorni della preparazione del progetto sul Don Chisciotte quanto scriveva Roland Barthes a proposito del discorso amoroso che, come il discorso teatrale è o rischia di essere “un discorso di estrema solitudine, abbandonato dai discorsi vicini, oppure ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere)”.
L’ “isola dell’intelletto” Kantiana, e forse l’isola che Don Chisciotte vuole regalare a Sancho Panza, restano una splendida realtà utopica difficile a vivere nella società che ci stanno, che ci stiamo, costruendo attorno.
Così oggi più di ieri, anche con questo spettacolo, proviamo a ricordare come la figura Don Chisciotte rappresenti la solitudine crescente del diverso, del “pazzo”, del sognatore, dello scienziato, del poeta, e di chiunque tenti di sfuggire all’ omologazione del pensiero e dei sentimenti.
Cercando con il sorriso, e con disperato ottimismo, di essere utili continuando a fare teatro.
Maurizio Scaparro
Autore
Don Chisciotte attore e spettatore
Quando Maurizio Scaparro venne a Madrid, e mi propose di collaborare al suo Don Chisciotte, io avevo già naturalmente, ricevuto da anni diversi inviti per adattare il romanzo per il cinema e per la televisione.
E avevo sempre detto di no, perché non mi interessava «raccontare» un testo così alto, ma anche spesso così eccessivo, così difficilmente «riducibile».
Ma la proposta di Scaparro fu un’altra, e mi colpì subito per la sua originalità. Mi apparve chiaro, fin dal nostro primo incontro, che il suo obiettivo preciso era quello di mettere in evidenza… l’anima teatrale che costantemente affiora nel romanzo.
L’idea mi sembrò quanto mai lucida e stimolante, e coerente con l’amore, confessato, di Cervantes per il teatro, e con la ripetuta presenza di avvenimenti teatrali, impliciti ed espliciti, nella sua opera.
Così, quello che più mi ha spinto ad accettare di lavorare con Scaparro (ed è stata un’esperienza che ho fatto con molta felicità) è stato proprio il riconoscere quanto di teatralità pura è presente nella figura di Don Chisciotte e in tutto quello che lo circonda.
L’Hidalgo si trasforma da individuo in personaggio nell’uscire dalla propria casa, travestito per presentarsi sul grande palcoscenico del mondo. Nel processo di partecipazione che si sviluppa, quelli che assistono alla rappresentazione del Cavaliere, gli spettatori, si trasformano in attori, fino al punto di ridurre talvolta Don Chisciotte stesso al ruolo di spettatore, di pubblico.
È questa attenta intuizione, perfettamente fedele allo spirito cervantino, alla base dell’idea e del progetto di Scaparro. Questa progressiva messa a fuoco del protagonista, non ha niente di casualmente eccentrico, né appare mai in opposizione con una autentica e semplice lettura del libro.
Don Chisciotte «rappresenta» la libertà, la fantasia, la dignità dell’uomo, in un paesaggio di miseria morale che lo circonda. E a questo proposito devo dire che mi colpì molto, nei nostri primi incontri, l’idea dello spazio atemporale nel quale Scaparro voleva costruire l’itinerario di Don Chisciotte, fino alla sua struggente sconfitta (fine?)…
Scaparro del resto non aveva nessuna intenzione di assumersi l’impegno, che è irrealizzabile, di rinchiudere il Don Chisciotte in schemi più o meno «riduttivi». Anche per questo pensai che potevo dire di si, questa volta, e lavorare con Scaparro e con Kezich. Non mi sono sbagliato.
Rafael Azcona
Interprete
E rieccoci alle prese con barbe, baffi, colle, scarpe che non sono scarpe, armature che pungono, stringono, distraggono e di cui comunque non si può fare a meno, perché bisogna pur avvicinarsi un po’ come immagine a questo signor Chisciotte troppo conosciuto e troppo prototipo per potersi azzardare a rappresentarlo in modo diverso da come lo si “vede” al solo nominarlo.
Tralascio il problema della magrezza esasperata, per me costituzionalmente irraggiungibile ma che bisogna pur suggerire almeno in modo subliminale!
Raggiunto tutto questo, che succede, è fatta? Macché!
Avevo dimenticato dopo ventidue anni che il teatro non è la pubblicità, che non è mai dipeso da un’immagine per quanto vicina ad un idea di personaggio? Non l’avevo dimenticato perché il teatro non l’ho mai abbandonato, ma avevo rimosso l’impervia difficoltà di Don Chisciotte che non è solo personaggio concepito per le scene, ma protagonista di uno dei pochi (forse cinque?) testi fondamentali di tutta la storia della letteratura mondiale; testo dal quale si può attingere da mille versanti e con mille punti di vista tutti legittimi, ma che subito si vendica se sente il minimo odore di tradimento o di leggerezza, leggi faciloneria.
Abbiamo con Maurizio, ed ho privilegiato i lampi dedicati al mondo del teatro; pur essendo uno degli infiniti temi di Cervantes sono tanti i lampi per poterli cogliere tutti e per questa edizione ne abbiamo scoperti altri rispetto a venti anni fa, sapendo che ce ne sono ancora e che fra venti anni forse altri attori ed altri registi potrebbero privilegiarli.
Per ora, coraggio, rendiamo credibile il viso, poi l’andatura, la gestualità, il tipo o i tipi di vocalità assecondando le infinite sfaccettature.
È sufficiente? No; siamo vicini ma bisogna verificare se l’interiore convinzione e disponibilità senza le quali anche l’interpretazione di un alabardiere muto risulterebbe carente, sono in grado di portare alla luce oltre le immagini e le divine parole, l’adamantina sete di verità, la poesia, l’amore per la vita nonostante tutto, per gli altri, per quel che la vita ha di reale e di utopistico, per i sogni, dimenticando che spesso si trasformano in incubi.
Ci riuscirò, sono ancora in grado di sentire e trasmettere tutto questo? Posso davvero dire a migliaia di persone che vale la pena di guardare oltre il grigio; che il faticoso viaggio iniziatico può essere ancora accompagnato da una consolatoria per quanto folle speranza di luce? Non lo so ma ho ancora la forza di provarci.
Pino Micol
Curiosità
Il Don Chisciotte di Scaparro viene riproposto, in una nuova edizione e dopo lo straordinario successo ottenuto venti anni fa (in Italia, in Europa e negli Stati Uniti), anche in occasione delle celebrazioni che il governo spagnolo ha organizzato in tutta Europa per il IV centenario della prima pubblicazione del celebre romanzo di Cervantes.
La vita teatrale di Don Chisciotte
Il mito è antico ed ha attraversato il pensiero delle grandi scuole filosofiche greche e romane. Di fronte alla fugacità dell’esistenza ed al carattere effimero della felicità umana, era quasi d’obbligo che alcuni uomini pensassero che la vita potesse essere concepita come una rappresentazione teatrale. Due titoli del nostro Calderòn, riassumono questa antica allegoria, riscritta – XVII sec., Spagna, Contoriforma – dalla prospettiva cattolica ed assolutista del suo tempo: «La vita è sogno» e «Il grande teatro del mondo».
Dietro, come decorazione di fondo, vi erano le nostre medioevali Danze della Morte, dubbio conforto degli umili, nelle quali re e vassalli, ricchi e poveri, erano uguagliati al termine della loro esistenza. Se la vita non era altro che sogno, e la nostra felicità o la nostra disgrazia semplici episodi di una rappresentazione teatrale, non restava altra verità che la religione e l’eternità dell’oltretomba, cioè, la vita che inizia quando cala il sipario.
Guardando bene, era una riflessione in cui la vita terrena ed il teatro meritavano – e lasciamo da parte, ora, le contraddizioni che la storia della Chiesa contiene al riguardo – lo stesso disprezzo. Se vivere era rappresentare, non ci restava altro che interpretare bene la parte, affinché Dio, il primo e più terribile dei critici teatrali della storia, applaudisse o condannasse la nostra recita, spedendoci addirittura all’inferno o in paradiso (per fortuna, i critici terreni non hanno mai avuto questo potere!). Di fronte a questa concezione della vita e del teatro, ne esiste un’altra che intende i termini in un modo molto differente.
È quella che vede nella maschera, nella finzione teatrale, il gioco che permette di scoprire l’uomo potenziale che è in tutti noi.
La storia sociale avrebbe provocato un insieme di repressioni, di idee e di minacce, a cui l’immensa maggioranza degli esseri umani avrebbe risposto con la cautela del cosiddetto senso comune. In fondo, però, avrebbe continuato a pulsare una vita immaginaria, confortata, momentaneamente, dall’arte, ma sempre in attesa di una follia, di una rivoluzione, di un amore o di una peste, per trasformarsi in azione.
Quindi, la vita sarebbe una rappresentazione nella misura in cui gli uomini preferiscono rappresentare ciò che sono anziché viverlo. La follia, solo apparente, svelerebbe i livelli di realtà che la saggezza cela. L’uomo saprebbe ciò che è, molto prima nel teatro che nell’azione quotidiana. Questa è, credo, la riflessione che emerge dalla bellissima lettura «teatrale» che Maurizio Scaparro ha fatto del «Chisciotte».
Non c’è bisogno di avventurarsi ne La Mancha, né di scontrarsi con i mulini fatti di legno e cemento. Don Chisciotte «va incontro» al mondo come un personaggio esce sul palcoscenico. È bene che i castelli li abbia fatti uno scenografo e che il giorno e la notte stiano nei comandi del tecnico delle luci. La follia, la vita immaginaria, va a combattere la battaglia partendo dalla sua stessa capacità per creare o trasformare gli esseri e gli spazi. L’idea di questo «Don Chisciotte» è quella di avere concepito come spazio immaginario proprio un teatro, che è il luogo delle follie accettate, l’ambito in cui, per principio, le bugie si trasformano nelle grandi verità.
Quando Don Chisciotte e Sancio incontrano il carretto dei comici, il secondo ha ben chiaro che la Morte è un comico mascherato; per il primo, invece, forse il comico è la Morte effimeramente mascherata da comico. Don Chisciotte ha la follia creatrice del teatro, quella che porta a rifare – o scoprire? – il mondo con la finzione. Il fatto è che non sa che finge o che è arrivato al punto di smarrirsi in quella zona insicura in cui si stabilisce il limite protettore tra il tangibile e l’immaginario.
Perciò, come ricorda Sancio, i Cavalieri Erranti non vanno sui carretti dei comici. Egli, però, ha nelle sue mani le chiavi del mistero. Vola mettendosi addosso soltanto un paio di ali di cartone, solca i cieli con Clavilegno e realizza lo strano miracolo – l’eterno miracolo del gran teatro – di rimpicciolire i saggi che si burlano della sua follia. Se Sancio assiste impavido alla litania di insuccessi, se, malgrado questi, continua a voler bene a Don Chisciotte, è perché il suo istinto gli dice, deve dirglielo, che bisogna essere attore invece di accettare la verità del prete e del barbiere. Don Chisciotte esamina le quinte tarlate di un vecchio teatro; si trucca allo specchio dei comici; recita il suo testo al centro della scena… È un attore che è diventato pazzo. Come direbbe Brecht, un Lear che ha finito per credere di esserlo. Soltanto che – e questa è la grandezza di Cervantes – la follia di Alonso Quijano non va in giro sciolta, né smarrita. Si trova, oltre la sua volontà, immersa in una dialettica continua, in una rissa ch acquista un senso nitido. Penso ora a Genet ed alle sue «ancelle»: in un mondo come questo, forse il teatro è la forma più pura e piena di libertà. Cambiamo il mondo se non ci piace, invece di bruciare, perché non cambi, i libri di Quijano.
Senza dubbio, «Don Chisciotte», come tutte le grandi opere, ha varie letture ugualmente lecite. Solamente i testi dogmatici ammettono un’unica interpretazione. E Cervantes è molto vicino sia al Rinascimento che al dogmatismo del Barocco spagnolo. Francisco Nieva, uno dei nostri più grandi uomini del teatro- autore, regista, scenografo, saggista -, ha scritto che Cervantes «appartiene a quella forma di maturità spirituale che chiamiamo modernità, ed in lui inizia un Secolo d’Oro che non si realizzò mai». Mi chiedo se la lettura di Mauirizio Scaparro, oltre ad essere una di quelle possibili, non sia perfettamente in consonanza con questa riflessione di Francesco Nieva. Perché il trionfo della Controriforma e della intransigenza fu, forse, la sconfitta di Don Chisciotte e della sua follia teatrale. Una follia – e questo sarebbe un altro aspetto importante nello spazio immaginario concepito da Scaparro – che si esprime sia sulla scena, sia in platea, come se il regista volesse ricordarci che la «bugia» teatrale è vera solo quando è condivisa dagli attori e dal pubblico.
Ciò che è ammirevole nel gioco è che i fili sono sempre allo scoperto. Chi si ricorderebbe, oggi, di Don Chisciotte, se non fosse un personaggio che si aggira per gli angoli della nostra vita immaginaria? Questo è ciò che, senza alcuna stregoneria, scopre il paradosso della teatralità.
Jose Monleon
Recensioni
l Mattino venerdì 4 novembre 2005
Don Chisciotte cavaliere dell’utopia contro la barbarie
di Enrico Fiore
Nella penombra di un capannone polveroso e dimenticato si scovano i libri a li si manda al rogo. E su quell’andirivieni, cieco e cocciuto nella sua cecità, si sveglia 1’hidalgo della Mancia. S’alza dal letto e – passando sotto il lembo sollevato di un sipario su cui risplende l’immagine di un cavaliere in sella a un destriero, altro che Ronzinante – si ritrova tra le macchine da effetti e scopre the il capannone è un teatro, l’unico luogo capace di ridestare la bellezza e i sogni spariti nel fuoco assieme alle pagine che li contenevano.
E’ la sequenza iniziale della nuova edizione del Don Chisciotte di Maurizio Scaparro, presentata al Mercadante dalla Compagnia Italiana. E dunque, appare subito chiaro, e dichiarato, l’assunto di questi ‘frammenti di un discorso teatrale’ (cosi’ recita il sottotitolo) riferiti al capolavoro cervantino nell’adattamento di Rafael Azcona, Tullio Kezich e dello stesso Scaparro: il regista vede Don Chisciotte come un campione dell’utopia e considera il teatro come il baluardo estremo contro la dilagante barbarie che va cancellando il pensiero, la poesia e la cultura.
Ma direi che – a parte le petizioni di principio – un risultato pregnante dello spettacolo sta in quel presunto elmo di Mambrino che piove dall’alto tra i piedi di Don Chisciotte e in quel sacco con i denari legato a una corda che lo tira via ogni volta che Sancio tenta di afferrarlo. Perchè, cosi, possiamo riandare alla decisiva analisi di Foucault,secondo il quale il Cavaliere dalla Triste Figura incarna la frattura determinatasi nell’età moderna fra le parole e l’esistente: è ‘scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose’, poiche ‘la scrittura ha cessato dl essere la prosa del mondo’ e ‘le parole vagano all’avventura, prive di contenuto’.Le cose,insomma,qui sono sempre un accidente o uno scherzo dei comici che dall’inizio alla fine attorniano Don Chisciotte. E, per il resto, risaltano ancora una volta – in linea con la scena di Roberto Francia, i costumi di Lele Luzzati, le musiche di Eugenio Bennato e le coreografle di Mariano Brancaccio – la misura e l’eleganza formale che da sempre costituiscono la cifra stilistica di Scaparro. Una misura e un’eleganza che, del resto, connotano anche la bella prova di Pino Micol (Don Chisciotte), ben affiancato da Augusto Fornari (Sancio) e, fra gii altri, da Fernando Pannullo (il capocomico) e dai figli d’arte Cuticchio coi loro splendidi pupi.
Alla fine Don Chisciotte muore. Ma non è una novità di quest’allestimento, come il regista ha dichiarato ai giornali: quella morte compariva anche nell’allestimento del DonChisciotte che Scaparro realizzò in vista dell’Expo di Siviglia e che vedemmo, proprio al Mercadante, nell’aprile del’92. La novità è che adesso il suo ‘non morire’ Sancio non lo grida piu’volte, come allora, ma una volta sola, a significare the lui stesso in quel grido non crede molto.
Infatti, mori’ anche l’ultimo e piu’ grande degli utopisti contemporanei. Si chiamava Ernesto Che Guevara. Nella lettera di addio ai genitori scrisse, per l’appunto:’Miei cari,
ancora una volta sento sotto i talloni le costole di Ronzinante; mi rimetto in cammino col mio scudo al braccio.Ora una volontà che ho perfezionato con compiacimento di artista sosterrà due gambe molli e due polmoni stanchi’. Ma lo ammazzarono in un angolo sperduto della Bolivia. Non ci furono e non potevano esserci,a salvarlo, le illusioni e gli artifici del teatro.
IL GIORNALE D’ITALIA giovedì 1 dicembre 2005
‘Don Chisciotte, frammenti di un discorso teatrale’
di Paola Aspri
Una scenografia essenziale che ripropone l’impianto drammaturgico della commedia dell’arte, quell’arte che riflette piu’ di ogni altra cosa 1’esistenza e con essa l’uomo che diventa personaggio per il volere altrui e di se stesso. ‘Don Chisciotte, frammenti di un discorso teatrale’, portato in scena dalla regia di Maurizio Scaparro, per coronare degnamente i 400 anni dalla composizione del romanzo piu’ celebre della storia letteraria internazionale, è tutto questo ed anche di piu’, grazie ad una verità che è elargita egregiamente da attori compenetrati nei ruoli di protagonisti e comprimari. Pino Micol e Augusto Fornari, sono un Don Chisciotte e un Sancho Panza convincenti, simbioticamente uniti in avventure folli e utopiche, frutto della mente di un cavaliere errante dalla figura triste, innamorato della sua Dulcinea, che non è una principessa, ma una povera ‘diavola’. La malinconia, la solitudine e il rimpianto per imprese generose, porta il protagonista ad una discesa agli inferi a contatto con i fantasmi della sua mente, accompagnato dalla terrena visione del suo fidato scudiero. Un emarginato dalla società che lotta per i suoi ideali e si scontra con attori di una Compagnia di girovaghi che tentano di sottrarlo alla vita per chiuderlo dentro un palcoscenico, ma in fondo anche l’uomo recita e lo fa tra le tavole del quotidiano. Cosi Scaparro dà una sua visione al di là di quella di Miguel de Cervantes e la sposa adeguatamente all’adattamento teatrale di Rafael Azcona e Tullio Kezich. A rendere unico uno spettacolo dai ritmi inebrianti e fantasiosi sono ‘ I Pupi dei Figli d’Arte Cuticchio’ che riproducono la commedia dell’arte di un altro cavaliere errante, in antitesi con la figura dell’uomo che lottava contro i mulini a vento, sotto lo sguardo attento del personaggio simbolo che per una volta esce dal libro di Cervantes e assiste, come uno spettatore, alla messinscena delle marionette. La musica di Eugenio Bennato aleggia romanticamente sull’animo poetico dei caratteri. Bravissimi anche Marina Ninchi e Fernando Pannullo. Non mancano colpi di scena per dare alla rappresentazione quella marcia in piu’ di cui il teatro
oggi ha bisogno piu’ che mai.
IL TEMPO giovedì 1 dicembre 2005
L’inarrestabile marcia di Don Chisciotte
di Tiberia De Matteis
Il Cavaliere errante in bilico tra realtà e finzione è tutto proteso verso una strenua, lacerante e solitaria battaglia contro un mondo incredulo e avverso diventa il simbolo del teatro nello spettacolo ‘Don Chisciotte: frammenti di un discorso teatrale’, presentato all’Argentina con l’adattamento del capolavoro spagnolo firmato da Rafael Azcona, Tullio Kezich e Maurizio Scaparro che firma la regia di un lavoro già approdato al successo internazionale vent’anni fa e adesso rielaborato in una nuova versione.
Protagonista, ora come allora, un Pino Micol visionario e stralunato, quanto intenso ed emotivo, capace di far ruotare intorno a sè un allestimento corale che vanta un immaginifico impianto figurativo grazie alle scene di Roberto Francia,ai costumi di Lele Luzzati,e alle epifanie dei pupi dei Figli d’Arte Cuticchio.Ludico,spontaneo e vagamente allusivo è ii Sancho Panza di Augusto Fornari che ha preso il posto di Peppe Barra, trovando una chiave interpretativa consona alle sue corde e adeguata al ruolo.
L’epopea tragica e risibile dell’utopico hidalgo si sviluppa in una dimensione metateatrale e le creature della sua fantasia si materializzano sulla scena attraverso gli espedienti, i trucchi e le convenzioni dell’arte scenica. Il mulino a vento è un’ombra suggestiva creata con una proiezione, l’elmo di Mambrino è una bacinella da barbiere, gli agenti atmosferici sono effetti provocati da macchinerei teatrali in un gioco delicato e contagioso che dimostra la corrispondenza fra l’iridata follia del personaggio e il coraggio espressivo di chi si impegna nell’universo professionale della rappresentazione.
L’illusione diventa cosi’ un privilegio autentico e doloroso, un’arma di difesa dalle circostanze deludenti e un tentativo di non omologarsi al senso comune. Don Chisciotte è allora un geniale apparatore di eventi e incontri nel candore del suo sogno amoroso e platonico verso Dulcinea, una contadina trasfigurata in essenza della bellezza e della seduzione, quanto nell’ostinazione dl poter modificare il contesto in cui vive. Sarà il regista che si identifica, riscattando giustamente il valore della sua missione?
CORRIERE DELLA SERA ED.RM giovedì 1 dicembre 2005
Don Chisciotte, quando la follia è un’opportunità
di Paolo Fallai
E adesso chi glielo racconta a tutti quei ragazzi che affollavano, l’ltra sera, il teatro Argentina, che vent’anni fa questo ‘Don Chisciotte’ di Maurizio Scaparro ci accompagnava nella modernità? Allora questo pragmatico utopista del teatro italiano distribuiva Cervantes come un virus: allestendo la prima versione dello spettacolo al festival di Spoleto, facendone un film (presentato negli Stati uniti, ai margini della Silicon Valley) e uno sceneggiato televisivo trasmesso in due puntate da una Rai mesozoica. Fece grande parlare di sè questa versione ‘multimediale’ del Cavaliere dalla Triste figura, mentre noi arrancavamo sui primi pc, avevamo telefoni pieni di fili e cassetti colmi di francobolli. Venti anni dopo, questi ‘Frammenti di un discorso teatrale’ sul Don Chiseiotte tornano all’origine, alla drammaturgia essenziale ottenuta da Scaparro, insieme a Rafael Azcona e Tullio Kezich lavorando di scalpello fine sulla gigantesca montagna del romanzo. Il risultato è un distillato autentico dove non c’è una parola che non sia di Cervantes. La trasfigurazione dell’hidalgo Alonso Quijano nel cavaliere Don Chisciotte non ha bisogno della Mancha: sono piu’ che sufficienti i brandelli di un vecchio teatro, con le macchinerie di scena bene in vista e sipari strappati sullo sfondo. E’ qui che Don Chiseiotte insegue il mito del cavalier cortese, qui dà vita alla Dulcinea che serve ad ogni uomo e ancora qui, sul palcoscenico, si scontra con i mostri giganti, ombre rifesse di un avversario immaginato. La doppia scatola teatrale in cui Maurizio Scaparro avvolge il suo Don Chisciotte lo mette al riparo dalla banalità del rito – come uscirne dopo 400 anni di letture e riletture? – e sposa il dubbio sostanziale sulla follia del protagonista. E’ lui il matto mentre si lascia vestire con una armatura sconclusionata, cade in estasi per la figlia di un porcaro, vola con ali di cartone o sul traballante Clavilegno dei comici? 0 siamo matti noi, i ‘normali’, che ci teniamo stretto il vuoto utilitarismo delle nosire piccole esistenze? Che fortuna per Pino Micol poter tornare in quei panni cosi scomodi a vent’anni e qualche chilo di distanza. Ora l’attore può spingersi fino alla quarta dimension di questo personaggio: quella della consapevolezza, lasciando che il ‘folle errante’ sospenda il suo sguardo, oltre la disillusione, gli insulti. le percosse. Godendosi la libertà guadagnata cosi duramente nei confronti dei ‘normali’. Non sorprende l’efficacia complementare e indispensabile del Sancho Panza di Augusto Fornari che riesce a sottrarsi al ricordo dell’interpretazione che fu di Peppe Barra e al rischio di fare del suo personaggio una macchietta. E’ una conferma la bravura di Fernando Pannullo, capocomico, accanto a Marina Ninchi. Anche grazie a loro l’apparizione stupefacente del carro dei pupi siciliani regala allo spettacolo il momento piu’ commovente. La multimedialità è una truffa e Scaparro lo sapeva benissimo, anche allora. A lui interessava e interessa il sogno, quella soglia che oltrepassa una realtà intollerabile: il paradosso che si fa opportunità. E che ha cercato in Amleto, Riccardo II, Cyrano. Chi glielo racconta ai ragazzi di oggi che il problema non è la tecnologia, ma l’assalto dei ‘normali’ ai pochi sani the rifiutano i meccanismi conformati? Solo il teatro e i pazzi che lo popolano. Don Chisciotte lo dice chiaramente a Sancho Panza, un minuto prima che una dissolvenza (rubata al film) se lo porti via: ‘Se potessi ora, da sano, darti un regno, te lo darei’.
IL MESSAGGERO sabato 3 dicembre 2005
Cervantes contro i ladri di utopia
di Rita Sala
Lo spettacolo ha solo ventitre anni; il romanzo da cui viene, quattrocento. Forse per questo il ‘Don Chisciotte,frammenti di un discorso teatrale’di Maurizio Scaparro, in scena all’Argentina per l’interpretazione di un adulto, ma oggi pastoso, meditativo e stupendamente estatico Pino Micol, cancella il tempo e le esegesi.
Un po’ di storia della rinata messinscena? Nacque al Festival di Spoleto, divenne film l’anno successivo, ha girato il mondo per piu’ stagioni, approda ora allo Stabile romano, in occasione del quarto centenario del capolavoro di Miguel de Cervantes.Il regista l’ha rinchiusa pure in un dvd.Il cast è cambiato, ma Pino Micol, in età perfetta per impersonare l’hidalgo utopista, resta il perno interpretativo dell’evento.«Dalle tavole della memoria cancellerò tutti i ricordi abitudinari e stupidi, tutte le massime dei libri, tutte le forme del passato che l’osservazione vi ha stampato». Maurizio Scaparro, antesignano in Italia e in Europa della riflessione scenica sull’Utopia, cooptò questa frase dell’Amleto di Shakespeare, qualche stagione fa mettendo in scena Il Giovane Faust (Urfaust) di Goethe. E chiamò a raccolta, attorno al gran Dottore, anche Rostand e Cervantes, nella luce bianca di una luna evocata continuamente, non quella degli ululati e dei sospiri, ma dei viaggi notturni e dei sogni che non hanno mai fine.Utopia, amore degli amori. Amore perduto per Faust, per Cirano, per Don Chisciotte. A guardarlo, il nuovo Cavaliere dalla Triste Figura è davvero per Scaparro (e addosso a Micol) la testimonianza contemporanea di come persino l’idea del Luogo-non-luogo, faro della tensione umana verso la perfezione, ci sia stata espropriata, negata, bucherellata. Don Chisciotte sorride e combatte da lontano, con la smagata tenacia che tiene in piedi anche oggi, nel villaggio globale, gli ultimi idealisti. Coniuga tutti i verbi della cavalleria, relativi all’Uomo e alla Natura. Si abbandona al Sogno, ma senza frustrazione. Onora l’onore, ma togliendogli ogni ombra di stolidità. Ama l’amore, che però sia diagnosi liberale dell’altra metà del mondo. Incanta il proprio servo, ma democraticamente. Rivendica senza lamento. Si fa ecumenico senza sforzo, uscendo dai propri paesaggi, dai propri castelli, dai propri mulini, conscio del compito di essere universale.
Sancho Panza? Augusto Fornari con asciuttezza, vigore e arguzia. Alter ego tridimensionale nel nitore che circonda l’hidalgo. Alla Velazquez.
IL MANIFESTO domenica 4 dicembre 2005
Il ritorno dell’eroe stralunato della Mancha
di Gianfranco Capitta
Va ancora errando dopo vent’anni il cavaiere Don Chisciotte secondo Maurizio Scaparro (all’Argentina fino a domenica 18, poi in tournee). Riprendendo quel suo antico lavoro, che nel frattempo ha goduto di edizioni tv e dvd, il regista sembra ora piu interessato a esplicitare il sottotitolo a la Barthes, ‘Frammenti di un discorso teatrale’. Pur rimanendo il testo originale (cofirmato da nomi prestigiosi come Azcona e Kezich), lo spettacolo sembra ora privilegiare rispetto alle peripezie del cavaliere di Cervantes (ora al quarto centenario dalla scrittura), proprio l’aspetto della teatralità e dei suoi strumenti, elementi costanti di tutte le cose realizzate da Scaparro. Protagonista è ancora Pino Micol, che dà all’eroe della Mancha, vestito d’armatura e di scarpe di ferro, un tocco ancor piu stralunato e dolorante: sarà, come spiega il regista, che quell’eroe sembra proprio appartenere all’età del ferro anche se si ostina a sognare una ventura quanto improbabile età dell’oro. Debutta come Sancho Panza Augusto Fornari, impegnato a differenziarsi dal disegno che dello scudiero aveva dato Peppe Barra. Attorno a loro rutila la messinscena che dovrebbe essere la’normalità’, ma trattandosi di teatro trionfa il travestimento (i costumi di Lele Luzzati, sempre bellissimi) sulla scena spoglia e funzionale di Roberto Francia, dove guidano le danze Marina Ninchi e Fernando Pannulo, mentre si devono ai Figli d’arte Cuticchio le marionette e il loro teatrino. La follia di Don Chisciotte si trasforma cosi’ nella difficoltà a mantenere la ragione, seppure quella dell’ utopia, in un mondo che ha già scelto il travestimento ossessivo di modi e valori in luogo della trasformazione. E una contundente confusione colpisce piu duro delle delusioni e delle sconfitte del Cavaliere errante. (g. cap.)
IL GIORNALE ED.Roma martedì 6 dicembre 2005
Un hidalgo malinconico e la giostra delle utopie
di Laura Novelli
‘Quello che v’è di prodigioso nel Don Chisciotte è la perpetua fusione dell’illusione e della realtà, che fa di questo un libro tanto comico e tanto poetico’. Nelle parole di Gustave Flaubert risuona quella vocazione all’utopia che Maurizio Scaparro rincorre da sempre. Oltre vent’ anni fa il celebre regista romano allesti’, infatti il romanzo di Cervantes in uno spettacolo che ha fatto il giro del mondo, riscuotendo ovunque grande successo.
Adesso, dopo aver diretto lavori tesi a sottolineare con garbato allarmismo il valore insostituibile della cultura e del teatro, Scaparro si riaccosta alla moderna epopea del cavaliere errante in una nuova lettura scenica che vuole essere solo in parte una ripresa della precedente. Non fosse altro
perchè a prescindere dall’immutata bellezza del testo,sono cambiati i tempi, è cambiato il teatro, è cambiata -soprattutto – l’aspettativa personale e collettiva rispetto proprio a quell’astrazione utopica che accomuna gli artisti, i poeti, gli spiriti illuminati di ogni tempo.
Tanto che qui l’inguaribile idealismo del protagonista-interpretato ancora una volta da un vibrante Pino Micol – sembra assumere, all’interno di un disegno metateatrale e carnevalesco quanto mai allusivo, il senso di una protesta contro il grigio pragmatismo di chi invece sognare non sa. L’allestimento, su adattamento di Rafael Azcona,Tullio Kezich e lo stesso Scaparro, è ambientato in un teatro in disuso di cui restano solo due praticabili di legno malconci, ancora in grado però di suscitare effetti e magie(firma la scenografia Roberto Francia). Sul fondo, una
tela con un cavallo dipinto; al centro, un letto per il sonno di Micol-Don Chisciotte:anima solitaria di questo teatro della memoria dove è il libro,ricettacolo di mondi possibili fissati su carta, ad aprire la giostra delle utopie. Come se dal rogo dei volumi proibiti accennato nella prima scena fosse necessario salvare un’opera che racchiuda in sè il fertile seme dell’umanità. E’ come se quest’opera stia tutta nella disarmante purezza del suo hidalgo: Micol si cala nel ruolo con generosa sensibilità, accentua i toni nostalgici e mesti e, affiancato da un Sancho Panza buffonesco ma assai affidabile ragionevole (Augusto Fornari), ci si mostra nel candore di un attore-bambino che crede ancora di poter volare, che pensa basti una corazza per fare il cavaliere.A lui spetta,in fondo,la poesia piu’ autentica di questo lavoro suadente e malinconico,dove i Pupi siciliani mossi da Filippo Verna Cuticchio sono chiamati ad incarnare i sentimenti,i desideri,la leggerezza della fantasia.
E non è un caso che,al di là degli scherni degli scettici,questo Don Chisciotte smunto e credulone soddisfi la sua sete di immaginazione confidando nelle ombre di una scena che con apprezzabile coerenza,il manovratore Scaparro spaccia caparbiamente per verità.La verità,ad esempio,di quelle ali di carta che alla fine i due protagonisti indossano per girare al centro del palco vuoto;per partire da li’ verso tutti gli altri ‘altrove’ sognati e sognabili.
IL GIORNALE martedì 13 dicembre 2005
Don Chisciotte rinasce tra comici e marionette
di Enrico Groppali
Nell’83 Maurizio Scaparro, in un felice triumvirato creativo con Tullio Kezich e Rafael Azcona, eleva lo straordinario ritratto critico che Cervantes sviluppò attorno a Don Chisciotte al livello di un eccezionale progetto multimediale che ebbe per risultato uno spettacolo teatrale poi tramutato in uno sceneggiato tv e in un film. Oggi i ‘frammenti’ dell’epopea cervantina, nel quattrocentesimo anniversario della pubblicazione del capolavoro, tornano in Italia accompagnati dalle bellissime musiche di Bennato e sorretti, sul palco spoglio dell’ Argentina solcato da bagliori tra cui s’intravede in controluce l’immagine donchisciottesca firmata da Dorè, dalle ombre suadenti e coloratissime dei costumi di Luzzati che spiccano come acqueforti sullo sfondo di Roberto Francia. ,
A somiglianza della struttura decantata da Roland Barthes nei ‘Frammenti di un discorso amoroso’, le stazioni del poema si decantano, in un evidente richiamo alla poetica strutturalista, in una grande suite polifonica. Dove la coppia formata da un Pino Micol che gli anni e l’esperienza hanno tramutato in un’immagine poetica di mirabile suggestione e, in sottordine, dal Sancho Panza popolaresco di Augusto Fornari, incontra non la goldoniana barca dei Comici ma i carri carnevaleschi degli spaiati teatranti di Scarron. I quali, pur nel rispetto delle ‘stazioni’ previste dall’autore, assumono valenza di sutura e di catarsi sottolineando il carattere iniziatico della parabola dell’eroe.
Nella visione del regista infatti Don Chisciotte e i comici, a differenza di quanto avveniva nel film di Pabst e nel grandioso progetto di Orson Welles, diventano da ironici contraltari della follia del protagonista, dapprima i suoi salvatori nell’arengo dell’ottimismo plebeo e in seguito i suoi angeli consolatori. Ritti come i santi nelle processioni del Venerdi’ a Siviglia, i commedianti capitanati dal sognatore Fernando Pannullo manovrano a vista, come fossero dei magici avatar destinati a compiere il miracolo, gli splendidi pupi di Mimmo Cuticchio dando voce e corpo al tormento amoroso di Dulcinea. Mutata in una marionetta decorata a festa com’era nelle intenzioni di Gaston Baty quando scrisse la sua personale rivisitazione di Cervantes. In uno spettacolo di magica resa stilistica destinato a un lungo tour europeo.
L’UNITA’ mercoledì 14 dicembre
Che attore Don Chisciotte che fa Don Chisciotte
di Aggeo Savioli
Nel corso del tempo, il capolavoro narrativo di Miguel de Cervantes ha registrato non poche versioni per la scena e per lo schermo (grande, poi anche piccolo). Torna ora a noi, in un’ aggiornata edizione, quel Don Chisciotte, frammenti di un discorso teatrale che nel 1983, con la regia di Maurizio Scaparro, esordi’ al Festival di Spoleto.Il testo adattato reca, come allora, altre firme: l’italiano Tullio Kezich, lo spegnolo Rafael Azcona. Ma l’accento è da porre, e non sembri un’ovvietà, sull’aggettivo ‘teatrale’, che esclude il semplice ricalco d’un titolo di Roland Barthes, dove era questione di un ‘discorso amoroso’. Infatti questo Don Chisciotte è tutto teatro. Gli spunti che già l’opera cervantesca offre, come l’incontro che il Cavaliere dalla triste figura e il suo scudiero Sancho Panza hanno con una compagnia di artisti girovaghi, si ampliano a coinvolgere l’intera vicenda: Don Chisciotte e Sancho sono attori essi stessi, tesi a identificarsi nei rispettivi personaggi, ma come sospesi tra totale immedesimazione e straniamento critico, quasi proponendo i termini del dilemma sul quale abbiamo visto accanirsi teorici e pratici dell’arte scenica, attraverso i secoli.Lo spettacolo, comunque, non ha nulla di dottrinario o di sussiegoso. Nella sua concisa misura (novanta minuti, senza intervallo) fila dritto
allo scopo di intrattenere, divertire e, perchè no, istruire il suo pubblico, compresi quanti siano ignari o scarsamente memori dell’eccelso modello. Merito certo degli interpreti: Pino Micol e Augusto Fornari nei ruoli maggiori, Fernando Pannullo, Marina Ninchi e una qualificata rappresentanza dei «Figli d’arte Cuticchio» , cui si aggiungono tre strumentisti di riguardo (musiche di Eugenio Bennato). E saranno anche da citare i collaboratori principali dell’impresa.
Roberto Francia che ha disegnato la scenografia, Lele Luzzati congeniale costumista, Mariano Brancaccio che ha curato i rari movimenti di danza. Alla sua ‘prima’ romana, all’Argentina, Don Chisciotte ha raccolto gran copia di applausi, di buon auspicio per le repliche, programmate fino a domenica 18 dicembre.
IL GIORNALE DELLO SPETTACOLO venerdì 16 dicembre 2005
Terza vita teatrale per il Don Chisciotte
di Ettore Zocaro
Maurizio Scaparro ha ripreso per la terza volta, a dispetto delle tante crescenti difficoltà in corso, il suo ‘Don chisciotte – Frammenti di un discorso teatrale, che rappresenta in questi giorni con successo all’Argentina di Roma. Due le edizioni precedenti dell’adattamento filmato da Rafael Azcona, Tullio Kezich e dallo stesso Scaparro, nell’83, al Festival di Spoleto, nel ’92 in diversi teatri, peraltro anche in lingua spagnola e con attori iberici. Allestimento pure trasposto in un film che, dopo aver circolato nelle sale, sta per essere lanciato sul mercato in formato Dvd. La nuova edizione sarà in giro per due anni, in questa e nella prossima stagione, ed andrà anche all’estero, attesa a Parigi e Madrid. Don Chisciotte, riproposto in coincidenza con il 400° anniversario del romanzo di Miguel de Cervantes, è una partita che Scaparro ha caparbiamente voluto ancora giocare ‘in quanto – dice – la sua materia ‘cavalleresca, impregnata di solitudine e di sogni, piena esaltazione del ‘diverso’e della visionarietà, costituisce l’ideale antidoto all’odierno mondo della globalizzazione e dell’appiattimento. Niente di meglio di questo straordinario capolavoro: rappresentazione di una spiendida realtà utopica difficile da vivere nella società nella quale ci troviamo, a cui il teatro, luogo di tutte le libertà, necessariamente ci riporta. Ho quindi avvertito la necessità di riannodare i fili con l’Hidalgo, campione assoluto dell’eroe errante, come poi lo sono oggi tanti di noi, sbandati, senza bussole, alla disperata ricerca di risposte che tardano ad arrivare. Di solito, è piu’ faticoso della prima volta rimettere in piedi uno spettacolo (ne so qualcosa con il Pulcinella che ho spesso ripreso), questa volta invece mi è parso piu facile, perchè avevo fra le mani un capitale esistente, che nel frattempo aveva meravigliosamente lievitato e che, di conseguenza, sentivo come non mai. E’ stata rispettata la spettacolarità teatrale con un impianto adeguato – aggiunge ii regista -; numerosi gli attori, capitanati da Pino Micol e Augusto Fomari, rispettivamente Chisciotte e Panza, e conservati in tutto il loro splendore i magici costumi dl Emanuele Luzzati. E poi ci sono i pupi siciliani di Cuticchio, che, insieme ad altri etementi artigianali della scenografia di Roberto Francia, rimandano ali’essenza autentica del fare teatro, in un contesto, come quello italiano attuale, che cerca di risparmiare su tutto, è un buon motivo in piu’ per essere soddisfatti’.
LA REPUBBLICA ED.RM sabato 17 dicembre 2005
Quel Don Chisciotte lentezza contemplativa
di Rodolfo Di Giammarco
Entra nel cervello come una forma di indugio, come la lentezza contemplativa delle dinamiche sceniche di Bob Wilson, e come una filosofia del camminare, il clangore apatico dei piedi corazzati con cui Pino Micol fa giri maniacali di campo all’Argentina impersonando l’alienazione del cavaliere errante in
‘Don Chisciotte, frammenti di un discorso teatrale’ di Azcona-Kezich-Scaparro. C’è una Via Crucis lirica, un’angoscia bislacca in questo spettacolo che oggi è piu suggestivo di 22 anni fa, visto che la regia nitida e da Encyclopedie del terzo millennio di Maurizio Scaparro fa appunto leva su una Profana Rappresentazione in cui Micol, con Augusto Fornari che è un Sancio da ruzantiana armata Brancaleone, è davvero l’anima dell’hidalgo, un Icaro che sprofonderà, un epico nemico dei pupi dei figli d’arte Cuticchio. E il programma di sala è da collezione.
EUROPA sabato 17 dicembre
Si conclude a teatro l’anno di Don Chisciotte
di Alessandra Bernocco
Se Lope de Vega scriveva che ‘nessun nuovo poeta è scadente quanto Cervantes, e nessuno è tanto sciocco da elogiare Don Chisciotte’, Lord Byron, qualche anno piu’ tardi, sosteneva invece che Cervantes aveva fatto scomparire con un sorriso la cavalleria dalla Spagna. D’altra parte, ‘sminuire l’autorità e la considerazione che i romanzi cavallereschi riscuotono nel mondo e fra il volgo’ era precisamente lo scopo dell’autore. Fatto sta che dopo le cinque edizioni consecutive del 1605 in Spagna, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, venne stampato a Bruxelles in versione originale e cirque anni dopo tradotto in Inghilterra. Era il periodo giacomiano della King’s Company con Shakespeare, John Fletcher; Thomas Middleton, Ben Jonson e il terreno ricettivo e fertile. Si racconta addirittura che Shakespeare stesso collaborò a una riduzione teatrale del Don Chisciotte, purtroppo andata perduta. Una fortuna analoga si ebbe in Francia, dove si diffusero quasi subito le novelle di Marcela e Grisostomo e del Curioso impertinente, grazie a traduzioni e liberi adattamenti. Finchè, piu di due secoli dopo, Flaubert porrà l’autore del Don Chisciotte accanto a Omero e a Shakespeare: la sua opera, ‘al pari dell’Iliade e dell’Amleto, appartiene alla letteratura universale ed è divenuta per tutte le nazioni un godimento eterno dello spirito».
Strutturato in due parti scritte a distanza di dieci anni, narra le gesta di un hidalgo spagnolo morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi, da diventare egli stesso cavaliere errante. Eccolo, allora cambiare ii suo nome da Alonso Quijano in Don Chisciotte della Mancia, per onorare patria e lignaggio, e mettersi in viaggio in sella al suo ronzino, che battezza Ronzinante. Di qui, una serie di parodistici omaggi alla cavalleria medievale, a cominciare dalla scelta di dama e scudiero, rinominati anch’essi secondo protocollo. Tra artifici, prodezze, incantamenti, anche l’anonima bacinella del barbiere verrà scambiata per l’elmo di Mambrino, e le greggi di pecore, per valorosi eserciti di combattenti nemici. E allora saranno botte e fughe, duelli e sfide, tra conquiste di cuori e di terre straniere, e tentativi falliti di liberare principesse e dame di corte. Fino alla lotta contro i mulini a vento, scambiati per giganti dalle braccia rotanti. E’ il gioco del teatro, dove regole e follia si legittimano a vicenda: la ‘follia con metodo , come la definisce Mariateresa Cattaneo nel breve saggio Don Chisciotte a il labirinto teatrale. Ma soprattutto è la natura carnevalesca, e non solo cavalleresca, del romanzo di Cervantes, come sostiene Maurizio Scaparro, regista di ‘Don Chisciotte, frammenti di un discorso teatrale’, attualmente in scena al Teatro Argentina di Roma. Si tratta della ripresa di uno spettacolo che ha alle spalle una storia ventennale. Rappresentato in prima assoluta al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1983 e subito dopo ad Almagro, nel cuore della Mancha, approda a San Francisco e a Los Angeles l’anno successivo, insieme all’omonimo film nato in seno ad un progetto multimediale. Un confronto di generi in cui il palcoscenico si attesta a luogo privilegiato di fantasia e libertà. «Forse il piu’ vicino alle alchimie della matrice letteraria». Lo sostiene Tullio Kezich, autore dell’adattamento teatrale insieme a Scaparro e Rafael Azcona, lo sceneggiatore madrileno che fin dagli esordi ha condiviso il progetto. La consegna era precisa: mettere in evidenza l’anima teatrale del romanzo, la ripetuta presenza di ‘luoghi’ teatrali, impliciti o espliciti, i travestimenti e i mutamenti continui, reali e apparenti. Ma anche suggerire che la follia di Don Chisciotte altro non è che la ‘ribellione consapevole’ di un solitario, un finto pazzo che non vuole arrendersi all’omologazione dei sentimenti. Di qui la maschera come strumento e veicolo del vero. Di qui il teatro, come rinnovato gioco di ruoli. ‘Facciamo finta, sembra dire il nostro mentre si accinge alla vestizione che io ero il cavaliere e tu lo scudiero’. Ero, ossia il tempo imperfetto dei giochi dei bambini, delle serve di Jean Genet che si travestono da signora, della pazzia di Amleto o dell’Enrico IV pirandelliano. La codificata sospensione del verosimile e l’assunzione della finzione per far emergere il vero. E allora, quale spazio di rappresentazione migliore, se non un teatro, poteva accogliere i vagabondaggi del corpo e dell’anima di Don Chisciotte e del suo scudiero? Un fatiscente teatro dismesso, dove ancora sopravvive un vecchio palcoscenico, il luogo per elezione della follia legittimata e dei patti condivisi. E’ questa l’idea vincente della regia di Scaparro, che pare abbia trovato tutti d’accordo.
Pino Micol-Don Chisciotte, ora come ventidue anni fa, sopporta una pesante armatura, senza compromettere la gestualità. Di un’esuberanza pianificata che nulla concede all’improvvisazione, incarna a pieno titolo la lucida follia del suo personaggio. Un equilibrio formale da cui non è esente nemmeno il pragmatico e interessato Sancho Panza di Augusto Fornari, e che attiene a tutto lo spettacolo. Nulla infatti è lasciato al caso. Le scene elegantissime di Roberto Francia, dominate dal legno e da un importante arazzo a rappresentare un cavallo, le coreografie di Mariano Brancaccio su musiche di Eugenio Bennato, eseguite dal vivo da Luca Bagagli, Riccardo Del Prete e Alessandra Sigillo, i costumi di Luzzati in un trionfo di colori rubati alla tavolozza. Se fosse un affresco sarebbe di Raffaello o del Perugino, dove tutto è composto, nitido, intatto. Persino troppo, da far venire la voglia di una pennellata sbagliata a scuotere i sensi. In scena anche Marina Ninchi, Fernando Pannullo, Filippo Verna Cuticchio, Francesco Bottai, Stefania Caudullo, Vittorio Cucci, Guia Zapponi e i Pupi dei Figli d’arte Cuticchio.
AVANTI martedì 27 dicembre 2005
Pino Micol, “Caveliere errante” all’Argentina
di Lucio De Angelis
ROMA – Torna, dopo circa vent’anni, al Teatro Argentina il ‘Don Chisciotte – Frammenti di un discorso teatrale’, diretto da Maurizio Scaparro. Nei panni del protagonista, definito dal regista come uomo ‘in bilico fra passato e futuro’, c’e Pino Micol, mentre a dare corpo al fido scudiero Sancho Panza è Augusto Fornari. L’operazione è realizzata in occasione del quarto centenario della pubblicazione del romanzo, in concomitanza con le celebrazioni che il governo spagnolo sta organizzando in tutt’Europa. L’opera racconta il viaggio di un uomo che, per evadere dalla monotonia di una vita mortificante, dapprima si rifugia nella lettura dei romanzi cavallereschi poi, affascinato dalle fantastiche vicende narrate, prova ad imitare le gesta degli antichi cavalieri andando incontro ad una serie di disavventure dalle quali, puntualmente, uscirà sconfitto. Don Chisciotte, con la sua fantasia, riesce comunque a trasformare il mondo in ciò che lui vorrebbe che fosse. Ed è cosi che scambia mulini a vento per smisurati giganti, osterie per castelli, inseguendo quale suo amore, la dama Dulcinea da lui creduta una principessa, che cambia continuamente apparenze. Da questo sogno Don Chisciotte si risveglierà, ritrovando la ragione, curiosamente solo al momento delta morte: ‘Visse pazzo e mori’ savio’. Si tratta, insomma, di un personaggio campione dell’utopia, che sceglie di percorrere la via della follia come unica forma possibile di ribellione nei confronti della ragione, del linguaggio comunemente accettati, divenendo l’incarnazione tangibile, l’emblema di quel teatro che nel cercane la verità attraverso l’illusione, è piu’ vicino alla fantastica follia. Ed è proprio questo il teatro che da anni racconta Scaparro, quel teatro che lo ha portato ad avvicinarsi ad altre grandi figure come Amleto, Caligola, Don Giovanni, affratellate allo ‘svitato’ Don Chisciotte, dal coraggio della solitudine. Eroi veri, che celati sotto la maschera dell’antieroe. accettano fino in fondo il ruolo del perdente per non rinunciare alla piu’ geniale inventiva, dono prezioso portatore di amore e di pace che, fa dell’uomo creatura irripetibile dell’Universo e per questo irrimediabilmente separata dalla macchina.
La scena non poteva che materializzarsi quindi, dall’idea di Scaparro, in un vecchio teatro, con al posto della platea una pista in terra battuta, quasi come un circo, con vecchie macchine di scena, quali antichi trucchi illusionistici. Il regista mostra cosi’ il Cavaliere errante, che se ne esce dal palcoscenico per andare incontro al pubblico, come alle sue avventure nel mondo, al fine di condividere l’unica cosa per la quale ha combattuto, la follia. Perchè la follia, come la bugia del teatro, è vera solo se l’attore può condividerla appunto con la sua platea. Tullio Kezich, alla sua cinquantesima sceneggiatura, è autore dell’adattamento assieme a Rafael Azcona e allo stesso Scaparro. In quest’opera, oltre ai due protagonisti e ai ‘pupi’ manovrati da Filippo Verna Cuticchio, vivono magicamente dei propri ruoli gli attori Manina Ninchi e Fernando Pannullo, Francesco Bottai, Stefania Caudullo, Vittorio Cucci, Guia Zapponi.
Corriere del Ticino giovedì 12 gennaio 2006
Don Chisciotte tra follia e verità
Pino Micol grande interprete del personaggio di Cervantes
di Antonio Mariotti
‘E’ Pazzo!E’pazzo!I libri l’hanno reso pazzo!’. Le battute iniziali del Don Chisciotte di Maurizio Scaparro, tornato sulle scene con lo stesso protagonista(Pino Micol) a ventidue anni dalla prima edizione in occasione del quarto centenario della pubblicazione del romanzo,
fanno subito capire in che ottica porsi, tra le tante che si possono adottare di fronte all’opera di Cervantes come di fronte a tutti i capolavori della letteratura. E se Alonso Quijano (non ancora Chisciotte poichè non ancora cavaliere errante) è matto, il mondo immaginario in cui si svolgono le sue avventure non può essere che quello del teatro come ‘il luogo delle follie accettate, l’ambito in cui, per principio, le bugie si trasformano nelle grandi verità’ per citare il testo di Josè Monleon inserito nel programma di sala. Ma il problema, per questo Don Chisciotte cosi come per l’uomo d’oggigiorno, è di non aver piu’ ben chiaro la propria collocazione in quella zona grigia sempre piu’ vasta che sta tra il tangibile e l’immaginario, tra il locale (l’attore in carne ed ossa davanti al suo pubblico) sempre piu’ minacciato e il globale sempre piu’ invadente. Per il cavaliere dalla triste figura i mulini a vento sono giganti dalle braccia roteanti, la bacinella ammaccata di un barbiere è l’elmo di Mambrino, Aldonza la porcara diventa la nobilissima Dulcinea dalla bellezza sovrumana, i pupi in armatura dei nemici da sterminare, gli attori girovaghi travestiti da Diavolo e da Morte si trasformano nel Diavolo e nella Morte. Nel mondo attraversato da Don Chisciotte le sue utopie, tratte dalle pagine del libri che ha divorato (primo fra tutti l’Orlando Furioso), si rivelano a poco a poco i peggiori incubi e le sue eroiche battaglie una serie infinita di sconfitte a di delusioni.E’ l’hidalgo ad essere in ritardo sui tempi o è lui l’unico ancora in grado di scorgere quel barlume di verità che sta per tramontare all’orizzonte, prima di finire a sua volta preda di quel buio mentale entro il quale si dibattono già tutti gli altri, tranne forse il fedele Sancho?
Domande accattivanti che nessuno si sognerebbe di porsi se il Don Chisciotte in scena ancora stasera al teatro di Locarno non fosse in grado di suscitarle. Lo spettacolo di Scaparro, in un’ora e mezza filata e mozzafiato che ha letteralmente saputo magnetizzare l’attenzione del pubblico, non si propone certo come un mero riassunto del capolavoro di Cervantes ma sa trasmetterne alla perfezione lo spirito. E ciò grazie a una messa in scena che sa di classico e si rivela di un’efficacia senza pari: niente microfonini, musica dal vivo giusta e mai protagonista, scenografie semplici e sorprendenti illuminate con giudizio, costumi eleganti ma non sfarzosi che giocano su una vasta gamma di colori. Pino Micol, dal canto suo, è un Don Chisciotte sognante, conscio fino in fondo della propria stranezza e della propria fragilità, tanto che lo s’immagina facilmente volare libero come un uccello dopo essersi disfatto dell’armatura e delle scarpe di ferro che lo trattengono al suolo. Aurgusto Fornari è un Sancho perfetto proprio perchè è all’opposto del suo padrone: concreto quanto lui è astratto, terricolo quanto lui è pindarico, ma al tempo stesso troppo affascinato da quell’isola da governare che lui gli promette per lasciarlo: ‘Solo la morte – dice – ci può separare: la sua» e cosi sarà. Bravi e misuratissimi gli altri interpreti. Martedi sera lunghi a convinti applausi per tutti.